Filologi o musicisti?

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Filologi o musicisti?

Messaggioda samueleave » 28/10/2016, 23:51

Un recente contraddittorio mi lascia l'amarezza di constatare come la filologia sia considerata un fine e non un mezzo anche da stimati musicisti. Personalmente ritengo che proprio dove finisce il lavoro del filologo inizi quello dell'interprete. Inaccettabile invece che un musicista si ritenga soddisfatto quando arriva a restituire al pubblico un'opera in modo "filologicamente corretto" senza considerare gli aspetti funzionali e comunicativi che la fruizione di un'opera, quand'anche con modalità filologicamente ineccepibili, necessariamente comporta e cioè ponendosi nel suo presente e senza alternative come appunto un interprete. Secundum non datur. Sono veramente pochi i grandi filologi che ci insegnano con la loro arte proprio questo: la consapevolezza dei limiti della filologia e la continua ricerca in musica di un puro atto comunicativo "hic et nunc"!
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Re: Filologi o musicisti?

Messaggioda Pier Paolo Donati » 19/12/2016, 12:38

Filologi o musicisti? entrambe le cose parrebbe di poter rispondere, visto che non sono rare le traduzioni sonore di pagine scritte dal XVI al XX secolo che risultano convincenti sia per gli uni sia per gli altri. Certo, il convincimento può mutar di segno. È proprio la storia dell’interpretazione a dimostrare che la filologia non è un fine, ma uno dei mezzi per giungere a verità relative che rispecchiano il grado di conoscenza raggiunto nel tempo, e lo stato dell’arte musicale; una ‘verità’ che sembra necessario continuare a cercare, in quanto nel mare della libertà interpretativa è bussola tra le secche delle incoerenze stilistiche e faro tra gli scogli dell’anacronismo.
Per questo nelle aule universitarie un tempo si diceva, e speriamo si dica ancora: «prima filologi, poi storici»; aggiungendo che «la fantasia fiorisce sul metodo». Per fare un esempio, se il metodo è corretto l’esecutore delle pagine per organo di Mendelssohn, dove spicca una solitaria indicazione di volles werk, saprà scegliere le registrazioni con cognizione di causa e giungere ad un ‘sapore di autenticità’, già di per sé avvincente. Nell’estemporaneo e «puro atto comunicativo» dell’orazione musicale, dire la verità è sempre apparsa come la premessa indispensabile per muovere l’affetto dell’ascoltatore; come attestano fonti e testimonianze d’ogni tempo.
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Re: Filologi o musicisti?

Messaggioda samueleave » 10/01/2017, 0:41

Ch.mo Prof., vorrei condividere alcune riflessioni seguenti il suo contributo e nella speranza di ulteriori spunti che ci vorrà fornire. Se la filologia è una disciplina a carattere scientifico, con le altre scienze essa condivide le note problematiche epistemologiche relative, ad es., alla ricerca delle fonti ed alla loro interpretazione. Essa è cioè consapevole di non poter ricostruire una verità assoluta ma un'interpretazione, la più coerente possibile, delle e tra le fonti, ed è sempre suscettibile di revisioni e nuove acquisizioni. Ne segue che un'interpretazione, intendo dire quella propriamente artistica dove un musicista si pone come "medium" tra testo musicale e pubblico, sarà certamente tanto più convincente quanto più dice il vero e cioè si avvarrà delle più approfondite acquisizioni della filologia. Ma questo "vero" interpretativo non può essere inteso come un assoluto "positivo" cui convergere - e giudicare - approssimazioni interpretative più o meno stringenti all'immagine filologica, quanto piuttosto un valore normativo "ideale" verso cui continuamente tendere e confrontarsi. Un corpus di conoscenze filologiche che non dovrebbe inibire l'interprete ma piuttosto garantire l'efficacia di quello che con onestà intellettuale fa ogni giorno: far amare al pubblico un brano con esecuzioni "filologiche", oppure per mezzo di opportuni compromessi in funzione di strumento, contesto materiale, culturale e pubblico, oppure per mezzo di dichiarate, anche ardite, rivisitazioni contemporanee.
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Re: Filologi o musicisti?

Messaggioda Pier Paolo Donati » 09/02/2017, 11:01

Caro Maestro, anch’io sono convinto che la ricerca filologica non offra verità assolute, come detto nel precedente intervento; quanto a quelle relative l’interprete nelle sue «rivisitazioni» è libero di non tenerne conto, come spesso è accaduto in passato: sarà una testimonianza sull’arte e la cultura del nostro tempo da conferire alla storia dell’interpretazione. Per nuovi spunti, si potrebbe riflettere sul fatto che l’epistemologia o filosofia della scienza si addice a discipline più radicate della nostra; qui siamo ancora al distinguere il dare dall’avere nelle influenze artistiche, al separare il prima dal dopo nel registro dei tempi, al dirimere questioni di prassi esecutiva, a scrivere la cronaca. Seguendo l’esempio di Les Annales, con i dati offerti dal metodo storico-filologico si è cominciato a scriverne una mancante, quella sugli strumenti che dall’Umanesimo al primo Barocco dettero voce alla musica per organo. Per quanto suscettibile di una migliore messa a fuoco, si attende la prova che non si tratti di una ricostruzione storica attendibile ma di una interpretazione.

Altro tema: tra tutti i musicisti che si dedicano all'interpretazione del passato, solo l’organista deve tener conto di un lascito che può condizionarlo. Chi siede sulla panca dell’organo e suona nel tempio dell’Assoluto, o improvvisa nell’aura del Trascendente, è l’erede dei compositori che delle ricette musicali venute in luce tra Otto e Novecento coltivarono di preferenza quella detta Sublime: tesa a rappresentare l’ineffabile, a creare aloni metafisici, a indurre mistiche visioni. In particolare, il nostro interprete discende dagli emuli italiani che furono prolifici autori di musiche sublimi al tempo delle lacerazioni connesse alla Questione Romana (1860-1929).
Sarebbe utile scriverla quella cronaca: il medium di oggi che nelle sue rivisitazioni contemporanee si pone tra il testo musicale e il pubblico avrebbe a disposizione un altro «corpus di conoscenze filologiche» con cui fare i conti.
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Re: Filologi o musicisti?

Messaggioda f_finotti54 » 11/02/2017, 12:54

Ogni interprete che si pone in relazione con una musica viene a trovarsi - solo per questo - nella condizione ineludibile di dover tener conto di un "lascito" che può condizionarlo. L'organista, dunque, non ha una condizione privilegiata rispetto a qualsiasi altro interprete e non può pretenderla. Se così non fosse, ciò significherebbe che egli non è parte di quell'insieme che vive per la Musica, nella Musica, portando come può - e possibilmente meglio che può - il suo contributo alla causa di una migliore Musica. Inoltre, gli autori che non hanno scritto per l'organo rischierebbero di trovarsi in una classificazione del tutto inopportuna e che è bene evitare.
Toscanini ebbe a dire in una occasione che ..."Io non faccio nulla che non sia nella partitura!" Al che Mahler ebbe a rispondere: "Nella partitura, c'è tutto, salvo l'essenziale!".
La condizione dell'organo oggi è forse quella di un corpo separato da un'anima, verso il quale le cure portate non bastano più. Possiamo - e dobbiamo - interrogarci sulle ragioni che hanno fatto sì che quel corpo si separasse dall'anima.
Riportiamo quel corpo dentro l'anima, se possibile, prima che questo corpo muoia e non possa più contribuire alla causa della migliore Musica.
francesco finotti
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