La musica d’organo in Italia dopo il Motu Proprio

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Autore: Fausto Caporali concertista, docente d'organo e di improvvisazione organistica

Un'approfondita e sapiente riflessione per una migliore consapevolezza dell'evoluzione del repertorio organistico dopo il fatidico documento promulgato nel 1903 da San Pio X papa

Contributo per un inquadramento critico

Italia

[L'organo "Mascioni" (1985) del Duomo di Cremona]

 

 

 

Un quadro d'insieme della musica organistica comparsa in Italia nel Novecento non può prescindere da uno sguardo complessivo sull'evoluzione della musica liturgica e sacra in generale; le divaricazioni che vi sono state in tempi relativamente recenti - il concerto come momento a sè stante, per esempio, o la varietà di stili e di impegno dei compositori - sono sorte da fattori che si spiegano in rispettive necessità, da esaminare ad ampio raggio. Questo contributo, pertanto, intende indagare le caratteristiche e le ragioni ideali di un secolo di musica organistica liturgica, tentandone una interpretazione il più possibile distaccata dagli eventi e ricercandone le derivazioni storiche.

La novità evidente, per uno storico che affronti lo studio della musica liturgica sul crinale fra XIX e XX secolo, è che le disposizioni ecclesiastiche che a vari livelli (diocesano, episcopale, vaticano) disseminano gli ultimi decenni dell'Ottocento e culminano nel Motu Proprio del 1903, raggiungono lo scopo voluto, così che una riforma musicale che non parte da istanze estetiche ma da auspici liturgici viene recepita dai musicisti operanti nella Chiesa e per la Chiesa. Gli interventi che si erano registrati nella storia a partire, ricordando per sommi capi, dalla costituzione Docta sanctorum patrum di papa Giovanni XXII del 1324, passando per il concilio tridentino, fino all'enciclica Annus qui di Benedetto XIV del 1749, avevano semplicemente individuato un problema di corrispondenze inadeguate ma non erano riusciti ad evitare che la Chiesa facesse propria la musica mondana sostanzialmente senza alcuna precisazione teologica o ricorrendo a statuti dirimenti; è possibile ritenere che l'acquisizione della contemporaneità nel rito costituisse un sussumere e nobilitare il dato materiale verso una prospettiva trascendente che la porta del bello artistico rendeva accessibile e percorribile a chiunque, laddove il rito non era esplicato altrimenti. Non le note in sé, ma il testo costituiva il differenziale di senso, a suggerire una possibilità di salvezza per ogni situazione del vissuto. L'interscambio paritetico di topoi linguistici fra ambiti - quello sacro e quello profano- quasi del tutto osmotici conferiva valore aggiunto al rito, intendendo l'arte "sacra" (cioè inserita nel rito) come sublimazione del quotidiano sia in un'ottica di preziosità artistica - il superfluo come affermazione di un decoro e di un'importanza - sia come mezzo di esplicazione rituale secondo atteggiamenti retorici condivisi nell'hic et nunc; il contenitore istituzionale aggiornava e intesseva la sua presenza incardinandosi nel mondo attraverso ciò che poteva essere proposto come nuovo nel tempo, la musica in primis, affidando i dati essenziali della fede anche alla percezione estetica eloquentemente individuata; la comunicazione si imponeva nel fatto artistico e con il fatto artistico, come evidenza simbolica di una presenza direzionata a realtà superiori. Il binomio docere et delectare esprimeva una mistagogica della lode divina e la promozione estetica della devozione mentre il mero diletto sensoriale, tutt'altro che rifiutato, si poneva al servizio di un fine oltremondano: l'ambito liturgico realizzava in forma simbolica, anche attraverso la musica, le indicazioni per un vivere virtuoso (affetti musicali di pietas e/o travestimenti testuali) e l'armonia musicale era analogicamente l'immagine dell'opera creatrice, regolatrice e redentrice della presenza divina.

 

La raccolta di testimonianze contro gli abusi dei musicisti nel corso della storia è stata oggetto di evidenze cronachistiche recenti; quelle a favore del fenomeno musicale a servizio del rito come esplicato sopra sarebbero molto più numerose, per non dire che un'attenta ermeneutica delle fonti porterebbe spesso a precisare meglio l'ambito di critica al sistema caso per caso. La storia mostra che la libertà di cui godeva l'artista concedeva la possibilità di rappresentare il massimo di artisticità in relazione al testo; tale libertà era da intendersi come utilizzo consapevole di mode condivise ed esibizione positiva di abilità intellettive-espressive: se il linguaggio era comune, il capolavoro disegnato laicamente permetteva la stessa riuscita nel campo sacro o viceversa, pertanto l'autore grande nel profano era grande nel sacro. Ciò che si palesa nel secolo appena trascorso è proprio l'assenza di musicisti grandi nell'uno e nell'altro campo, mentre la significatività di un autore importante si è esplicata nel "religioso" in senso lato ma non si è applicata alla liturgia se non in produzioni del tutto episodiche.
 

Proprio la quasi totale assenza di contatti attivi e di relazioni imitative con la musica più generalmente laica può essere, a nostro modo di vedere, una chiave di interpretazione per tracciare i nessi critici di quanto è avvenuto per la musica sacra-liturgica e, parallelamente, per quella organistica, nel Novecento.

 


Il Motu proprio e la musica liturgica e organistica.

 

 

Il Motu Proprio ha inteso definire dall'alto - la riforma è partita per iniziativa del clero - come e quale dovesse essere la musica liturgica, l'ha imposta ai laici e ne ha invocato la realizzazione artistica. Il problema di ridisegnare la musica nel rito diventò stringente quando la Chiesa dovette fare i conti da una parte con una necessità di un'azione pastorale da rinnovare, rinsaldare e approfondire, dall'altra con un primato che doveva ora rivolgersi ed attuarsi nelle coscienze; a quel punto si dovettero indirizzare gli atteggiamenti individuali verso una identificazione collettiva, dal momento che la secolarizzazione progressiva sottraeva situazioni scontate. La riforma liturgica significativamente partì dalla musica - i cui eccessi profani erano arrivati a svilire il rito stesso perché direttamente rapportabili ad ambiti decisamente dionisiaci - sia perché, per le stesse disposizioni ecclesiastiche, i laici non dovevano in nessun caso occuparsi di liturgia, sia soprattutto perché, essendo la musica l'arte che è approntata normalmente da parte di laici di volta in volta nel rito e con evidenza immediata quella che conferisce la valenza connotativa alla celebrazione, per prima fu chiamata a esplicare il rito; essa chiamava il fedele ancora a una partecipazione almeno emotiva - dunque sopperiva a un difetto di comunicativa nel rito stesso - dall'altra parte stabiliva una distinzione che contribuiva a identificare e manifestare un'appartenenza: gli aspetti trionfalistici o mistici della musica liturgica di quest'epoca possono essere compresi in quest'ottica. E' proprio in questa linea di "separatezza" che occorre leggere la produzione musicale sacra-liturgica di tutto il Novecento e vederne la valenza. L'arte musicale è chiamata a distinguersi dal mondo, mentre i modelli del gregoriano e di Palestrina costituiscono i termini di una possibilità creativa sottratta alla sensibilità del mondo e incanalata in un'oggettività a-sensoriale, poiché la sovratemporalità dell'esperienza musicale poteva segnare l'idealizzazione massima di un'appartenenza.

La musica organistica ha seguito la stessa parabola, trovandosi a doversi misurare con una serie di indicazione di comportamenti nel momento in cui si calava nel rito, del tutto opposta alla totale libertà di cui disponeva in precedenza; se l'organista una volta aveva potuto esplicare la sua attività in rapporto al pubblico più che al rito, in rapporto alla vita piuttosto che alla distinzione dal mondo, introducendo la sensorialità invece di assumere la contrizione dell'interiorità, scegliendo i tempi del vivere piuttosto che il tempo del soprannaturale, ora doveva rapportarsi prima al rito e poi agli ascoltatori, mutuando agogiche e atteggiamenti da indicazioni precostituite e stabilite a priori; le vicende di posizionamento dello strumento all'interno dello spazio-chiesa (vicino all'altare e non più in controfacciata-palcoscenico) agli albori del secolo XX indicano chiaramente il mutato ordine di rapporti ideali.

 

Gli artisti che consapevolmente fecero proprie le nuove istanze trovarono ispirazione e modelli nelle correnti tardoromantiche europee e in minima parte nel melodramma nostrano, rispetto ai quali in ogni caso lo strumento a disposizione iniziava a trovarsi inadeguato. Mentre da una parte il rito costringeva il musicista a temperare l'orizzonte espressivo e logistico, parallelamente cresceva la consapevolezza e l'importanza dell'esecuzione pubblica.
 

L'istituzione del concerto, momento in cui l'io musicale poteva disporre di totale libertà di modalità esplicative, compare all'incirca in quegli stessi anni. Ciò che il musicista realizzava nella comunicazione in concerto non collimava, se non casualmente, con ciò che apportava alla Liturgia. La dicotomia si è resa inevitabile perché la forma mentis del musicista era intessuta ancora di personalismo romantico e andava sostanziandosi sia della necessità del recupero storico sia della convinzione dell'intangibilità della musica del passato; il rito, per contro, reclamava un contenimento del sè e un adattamento dell'altro.
 

Neppure l'improvvisazione poteva sopperire il concetto di atto artistico, ovvero di atto chiaramente individuato e deciso secondo un'idea formale: quando consisteva nel rifacimento di uno stile dominante, poteva essere aspetto accessorio e complementare dell'attività creativa, quasi un tutt'uno, una sorta di laboratorio continuo dell'unica idea creatrice - come era avvenuto nei secoli appena trascorsi; quando si trovò ad avere punti di riferimento in continua evoluzione e ispirazioni linguistiche contraddittorie o si dovette legare all'esplicazione rituale o allo stile delle composizioni vocali non più legate all'evoluzione musicale, non è poi arrivata ad acquisire una importanza propria: proprio la problematicità nel darle una forma (ossia di un quadro di riferimento di tempi e di strutture) ne ha assimilato l'aspetto a quello di riempimento più o meno riuscito, tutt'al più legato a un'ispirazione momentanea, alla brillantezza della tecnica manuale o alla bellezza dei suoni impiegati.

 

 


Quale valutazione estetica?

 

 

Tutte le polemiche fra artisti e istituzioni ecclesiastiche, ancora oggi d'attualità, si possono ricondurre al fatto che l'abitudine romantica all'invadenza dell'io compositivo (che non deve avere regole, non può limitarsi a casacche imposte, che non può concedersi a una applicazione compromissoria del suo dettato, che si impone all'originalità, ecc.) risulta immediatamente incompatibile con gli strettissimi dettati del Motu Proprio; basta scorrerne le disposizioni per leggere un divieto via l'altro, una seria di "doveri", un desiderio di "correggere e istruire", di esigere l'"autocontrollo", eliminare anche l'apparenza di protagonismo (ciò che in musica è sempre stato ed è legato all'esecuzione pubblica); addirittura, per citare un particolare, vi fu la proibizione per gli organisti di improvvisare durante le celebrazioni, perché veniva a mancare il controllo sul musicista, mentre comparivano i comitati che redigevano liste di proscrizione per musiche ritenute indegne benchè tolleratissime fino a qualche anno prima. Il fatto di mettere divieti può essere letto come un chiedere uno spirito, una convinzione, un garantirsi l'identità. In tal modo si spiega come mai fu netta, allora come oggi, la separazione fra stili di musicisti operanti nel mondo e musicisti di chiesa; forse è da leggere anche in questo senso la crisi di un Perosi che, se da una parte poteva comporre come un Mascagni o un Respighi, dall'altro si sentiva costretto al dogma palestriniano. La musica liturgica doveva essere sottratta al tempo e riportata su binari estranei al tempo, in un'ottica di neoidentificazione in cui il compositore doveva adeguare e manifestare la sua scelta compositiva; lo stesso canto gregoriano, che diventò la bandiera della riforma, cos'altro rappresentava se non una garanzia di impersonalità, coralità opposta a personalità, autocostrizione emozionale, ascesi dell'esperienza? I limiti imposti al compositore erano ben differenti da quelli di prima: a un Bach si imponevano standard tecnici pacificamente vissuti, a un compositore liturgico del primo Novecento si imponevano modelli astratti dal mondo e dall'evoluzione storica.
 

Chi valutasse secondo la visuale dell'originalità evoluzionistica, potrebbe chiedersi se la produzione cosiddetta ceciliana, tanto vocale che organistica, sia nata dallo spirito della grammatica piuttosto che da quello della poesia e, in ultima analisi, se il valore estetico sussista e in che misura.
 

In realtà, la musica liturgica va collocata sul piano della musica referenziale, non su quello delle creazioni pensate per se stesse e derivate da una possibilità totale; in altri termini, non si possono mettere sullo stesso piano valutativo la musica in tutto e per tutto espressione del sè e la musica finalizzata a una situazione esterna. Ciascuna ha il suo statuto e i suoi ambiti e la perfezione tecnica è ravvisabile in entrambe. E' da notare che a cavallo degli anni '30 del XX secolo, con la netta e vigorosa opposizione alla musica contemporanea nella querelle sul "terzo stile"( né copia dell'antico, né avanguardia, ma altro) da parte dei musicisti di punta del cecilianesimo e la relativa presa di distanza dal prepotente egoismo dei compositori, per così dire, "laici" (che si sarebbero spinti fino all'attuale incomprensibilità estetica), si confermò come distinzione da leggersi come strumento per una consapevolezza di un'azione mistagogica incisiva in cui la musica doveva sottomettersi all'azione liturgica per assecondarne soteriologicamente lo spirito, pur adottando linguaggi in qualche modo nuovi; la triade "arte santa, vera e universale" del Motu Proprio, se oggi appare superata sotto molti aspetti, ha costituito il solco per un invito ad una prassi della positività della comunicazione e all'attenzione al senso della liturgia. Le stesse punte moderne all'interno del movimento ceciliano con il loro sostanziale moderatismo, confermano questa necessità prima della musica liturgica, ovvero quella di rapportarsi con un insieme di persone e di non travalicarne la recettibilità.
 

Dunque, l'ottica di valutazione non può basarsi sul confronto con la musica "autonoma" del Novecento, bensì sulla riuscita di un rapporto con chi usufruisce tale musica, con le dinamiche situazionali e con la realizzazione di una istanza carismatica. Non si può negare la bontà di forme di una messa di Refice, se si chiarisce prima che la sua collocazione nella storia obbedisce a istanze autonome e se la si colloca sul binario che le è proprio. Ma occorre rilevare anche che, nel persistere oggi di questa distinzione, risulta arduo trovare maggiore autenticità in una composizione ultramoderna, il cui senso spesso è noto al solo compositore, rispetto a una composizione in cui l'assunto è direzionato all'altro-da-se e fa uso di un linguaggio che tende istituzionalmente alla comprensibilità. L'autenticità della prima è indubbia nei confronti della storia, non lo è nei confronti nell'apertura ad un senso condivisibile. La Chiesa non poteva accettare nella liturgia, allora come oggi, una musica che portasse in sè i sintomi di una crisi del linguaggio.
 

Per inciso, proprio la spinta all'esplicazione consapevole e partecipata del rito ha portato all'immissione di repertori di consumo: quello che è un linguaggio contemporaneo, fruito e dunque pienamente comunicativo, è stato travasato all'interno delle celebrazioni, con il corollario che il musicista colto si trova di fronte ciò che egli definisce non-cultura. Non ci si vuole addentrare nella definizione di cultura e neppure si vuole indagare la distinzione, oggi probabilmente necessaria, fra intus e foras, ma non si può non annotare che il parallelismo fra l'utilizzo di linguaggi coevi non differenziati com'è stato fino a tutto l'Ottocento, è evidente. In ogni caso, è il musicista colto a dover fare i conti con una musica, la sua, che presenta valori intellettuali certi, e tuttavi non immediatamente decifrabili da parte della modernità. Il problema è innanzitutto del compositore, del suo linguaggio più o meno decifrabile e della misura con cui cerca la comunicativa.
 

E' chiaro che i termini diventano antitetici: se la validità estetica di una musica esista in rapporto alla completa libertà dell'autore o alla destinazione funzionale, alla possibilità di una condivisione o meno a priori, se debba essere denuncia esistenziale o travalicamento, imago mundi o strumento provvisto di eloquio direzionato e direzionabile. Certo, non vi è soluzione se si parte da un'idea storicistica ed evoluzionistica della musica, mentre dovremo per forza di cose far nostro il principio secondo cui l'opera d'arte va giudicata solo secondo criteri propri ad essa intrinseci, nelle condizioni in cui si condensa nell'attualità e raggiunge l'efficacia per cui è pensata mediante dati tecnici oggettivamente valutabili.

 

Quel che i musicisti di chiesa hanno composto dopo il Motu proprio rappresentava sì un mondo distinto, ma che si muoveva all'interno di forze di reciproco rispetto che non potevano far assumere alla musica altra forma se non quella "in funzione dell'altro da sè", partecipe delle tematiche del rito, necessariamente comunicativa e non quella dell'affermazione senza misura del sè. Con questi presupposti, una storia della musica liturgica vocale e organistica del Novecento può essere scritta prendendo atto della distinzione che questa produzione musicale mantiene nei confronti di quella restante, cui non può imparentarsi proprio in virtù dell'ancoraggio a istanze differenti. La richiesta di veicolare messaggi ha dunque imposto una costruttività di fondo, ciò che è indubbiamente positivo, anche se, proprio in virtù della mancanza della concessione di libertà, ha fatto sì che la musica fosse come un'eco di musiche e stili già scritti o di musiche e stili troppo avveniristici.

 

 


L'evoluzione della musica organistica all'inizio del XX secolo.

 

 

L'originalità compositiva (in rapporto al dato precedente) è ben visibile nella produzione organistica dei primi decenni del Novecento: il modello tardoromantico poteva offrire larghi strumenti espressivi, mentre le osmosi fra musica laica e musica da chiesa potevano ancora sostanziarsi di un nutrimento comune. La sensibilità dei compositori di più ampia cultura procedeva alla liquidazione dei modelli melodrammatici per internazionalizzare il linguaggio secondo una visione mitteleuropea. Parallelamente al linguaggio musicale, l'organaria ha cercato di appropriarsi di standard europei sorti in tutta evidenza in relazione al positivismo e alle innovazioni industriali del tardo Ottocento. L'aggiornamento tecnico si imponeva come acquisizione di mezzi verso lo stabilirsi di una maggiore facilità dell'apparato fonico in rapporto alla musica: solo in questo rapporto si spiegano le adozioni tecniche di questo periodo e solo in un dialogo fecondo fra creatività rispettive (organista-organaro e organista-musica sinfonica) si spiegano i risvolti fattuali che hanno animato la musica organistica per un'ultima stagione proiettata in avanti; ciò che razionalmente poteva migliorare la fruibilità e la costruzione di uno strumento costituiva un progredire artistico per se stesso e andava ad alimentare l'idea di fornire all'organista più ampie possibilità e comodità, mentre la tavolozza sonora e la ricerca di facilità combinatorie seguiva di pari passo le ricche ed articolate musiche orchestrali d'inizio Novecento. Le carenze tecniche costruttive dell'organaria sono stato lo scotto pagato ai metodi industriali, le cui leggi interne necessariamente portano alla standardizzazione e alla breve durata.
 

La storia della musica organistica può essere letta come corollario attivo della storia della musica più generale per i primi decenni del Novecento, fino a che la problematicità del linguaggio si è imposta prima come disgregazione dell'io musicale e poi come naufragio della comunicazione.
La musica organistica, come s'è detto, si indirizzava alla Liturgia, e si aprì, ben in ritardo sulle consuetudini straniere, la strada del concerto. Fatto quest'ultimo relativamente nuovo, poiché il concerto in chiesa come tale coincideva prima del Motu Proprio, con la celebrazione stessa, ed eventualmente era di inaugurazione a seguito di una celebrazione.

 

L'istituzione del concerto continua il mito dell'arte fine a se stessa: la musica non è funzionale a qualcosa ma è rappresentabile per se stessa, è puro spirito che non deve conoscere restrizioni, bellezza che deve essere colta nella sua intuizione pura. Ma mentre il musicista romantico poneva il sè autentico al centro dell'attenzione, eseguendo musiche proprie o travisando musiche altrui, ora il musicista diventa restitutore culturale, vale a dire esecutore di opere di altri, accontentandosi così di mettersi al posto di un altro musicista, idealizzato e assunto come exemplum artistico. Sintomaticamente il passaggio avviene parallelamente al fiorire dell'idealismo storicistico italiano, per il quale i fatti storici vengono considerati nella prospettiva della "storia ideale eterna" e pertanto resi esemplari per la conoscenza del mondo e assoluti: ogni opera d'arte è unità spirituale che non si perde nel tempo e la riproduzione piena del passato è un ideale che si attua all'infinito; "tutti i fatti sono storici" (Croce) e tutti i fatti sono assoluti, la storia è immanente e di conseguenza gli accadimenti "sono opera di Dio". La cognizione di tutta la storia di un dato momento è fondamentale perché conosce lo spirito che è stato convertito nella creazione estetica singola e nella storia ricostruiamo l'attualità eterna dello spirito e dunque noi stessi; se qualcosa rimane oscuro, vuol dire che mancano all'attualità elementi per rivivere completamente l'intuizione lirica, ma ciò può essere svelato dall'indagine storico-filologica. Tutto il passato ci costituisce e l'oggi risulta dalle connessioni che ci hanno preceduto, mentre un qualsiasi fatto estetico storico può parlare un linguaggio eterno sovratemporale, laddove lo spirito ne penetri l'essenza poetica.
 

In quest'ottica, si assistette all'esaltazione dell'esecutore virtuoso, in parallelismo perfetto con quanto avvenuto con pianisti o direttori d'orchestra, per il quale l'aspetto restitutivo di ripristino storico si compenetrava con l'esibizione di abilità tenciche (esecuzione a memoria, esecuzione di brani difficili); come l'artista romantico egli poneva il sè in evidenza, attorniandosi di un'aura di matrice superomistica che induceva effetti fascinatori (Germani, Matthey, Yon) a continuazione dell'esempio dei grandi virtuosi ottocenteschi, con il risultato di supportare l' interesse per l'organo mediante la spettacolarità. La novità è che il musicista diventava progressivamente esecutore di repertori dapprima relativamente vicini nel tempo e poi desunti in completa libertà da qualsiasi epoca e luogo. L'assolutizzare il fatto storico musicale lo si legge anche nell'accostamento in concerto di brani di diversa epoca, sciolti l'uno dall'altro oltre che dal presente e giustificati nell'esistere di per se stessi.
 

L'esaltazione del passato quale paradigma di valori eterni iniziò con l'esecuzione di musiche la cui complessità confermava l'importanza della creazione come atto dello spirito: il musicista poteva trovare la sua realizzazione nel solo riaccadere e vivere del riflesso di grandiosità virtuosistica creativa, continuando - come s'è detto - rivedendo e in qualche modo camuffando il personalismo del secolo precedente, ma soprattuto vi trovava la persistenza dell'idea positiva dell'arte come comunicazione mentre la crisi del presente metteva in discussione la stessa funzionalità e il senso del fenomeno artistico.
 

Il perdurare del modello romantico si rivelava anche nella composizione organistica, dal momento che, seppure in misura relativamente ridotta in Italia, l'artista si completava eseguendo musiche proprie composte per l'esibizione concertistica. Significativamente il musicista-esecutore non concedeva, se non episodicamente, cittadinanza artistica alle composizioni liturgiche e anteponeva la libera espansione del pensiero musicale al dettato rituale, accontentandosi di declinare il proprio stile nell'improvvisazione occasionale. La scrittura virtuostica e l'ampio respiro delle non molte partiture italiane da concerto dei primi decenni del XX secolo dicono lo sforzo di apertura ai modelli europei. La valutazione estetica di queste musiche, sganciate dal grande flusso della musica più d'avanguardia, dovrebbe seguire più l'idea dell'esaltazione del suono organistico che non l'idea dell'attuazione di un linguaggio in sintonia con l'evoluzione; in esse la salvaguardia della comunicativa è stata preminente rispetto alla problematica della sperimentazione o alla libera ricerca di nuove vie. In generale la musica organistica nella sua storia, risulta, da un punto di vista evolutivo, secondaria rispetto alle correnti che hanno governato la storia stessa, così la riuscita è da stabilire caso per caso in relazione all'efficacia e all'esaltazione dei fattori organistici soggettivi ed oggettivi. Come un Reger si trovava in ritardo sulla sua epoca, così un Vierne e così un Matthey, pure appartenendo alla stessa generazione; nessuno è stato importante nella storia della musica e ciascuno ha trovato ispirazione in un linguaggio arretrato sui tempi, più legato alla comunicazione condivisibile che alla ricerca pura.

 

 


L'esecuzione storica.

 

 

Parallelamente si iniziò il percorso del recupero di tradizioni lontane nel tempo e nello spazio con una più marcata separazione dall'evoluzione musicale, imponendo all'ascoltatore un adeguamento a linguaggi lontani dal presente.


Questo approccio alla storia intende il fenomeno del concertismo come attuazione nell'oggi della fruizione estetica di un brano appartenente al passato, così come avviene in generale per l'esecuzione della musica cosidetta classica; ad esso si collega direttamente il fiorire di studi storici che ampliano la conoscenza dei dati attorno alla creazione artistica del passato. La filologia come raccolta di elementi che ulteriormente illuminano la comprensione dell'opera d'arte è da vedere nella prospettiva del far rivivere il fatto storico nella sua verità, ossia nell'assoluto spogliarsi da interpretazioni non oggettive; il contatto con il dato storico è dunque totale; l'aderenza ai fatti è nel concreto condizionata da fattori che sembrano inficiarne la possibilità cognitiva quanto più ci si inoltra lontano nel tempo (fonti frammentarie, difficilmente interpretabili, contraddittorie, di carattere locale ma intese come generali, di carattere puramente episodico, eccezioni prese come regola, ecc.); ma ciò è visto come una carenza provvisoria e non come limite della conoscenza storica, il cui oggetto è ideale e non intaccato dall'impossibilità di ricostruzione al lato pratico; la durata irreversibile dell'io impedisce la ripetizione del sé (uno stesso brano non viene eseguito due volte in maniera identica) e il divenire continuo della storia rende ipotetica qualsiasi ricostruzione oggettiva di ciò che non è stato neppure vissuto, ma ciò non sminuisce la sostanza dell'oggetto storico in sè, sublimizzato idealisticamente in un'aura sovratemporale, e l'ipoteticità della sua ricostruzione viene sepolta sotto l'apparente scientificità del ripristino.
 

L'io del musicista-restauratore ha il compito di interpretare ma, per quanto venga proclamata la libertà dell'attualizzazione - come non vedervi un residuo romantico - in realtà ha una prospettiva che è quella della libertà condizionata: tanto più l'interprete, dopo aver indagato ogni aspetto dell'epoca, riesce a far convergere i dati nella ricostruzione esatta, tanto più il suo operare sarà un rivelare il fatto storico, ossia un rivelare "altro" rispetto al mondo che vive, e tanto più il suo sentire si appiattirà sul dato oggettivo, perché egli "informa" sè di quei dati: ogni interpretazione è dunque rinuncia al sé in cambio dell'adozione totale del dato storico. La sostituzione della personalità creatrice con quella restitutrice è totale. Il compito dell'organista è ripresentare la storia e non crearla.
 

La questione si pone altrimenti quando si scende sul piano della comunicazione: il significato di una musica si coglie quando chi ascolta prevede in qualche modo l'evolversi del brano e realizza così una compatibilità fra la musica e il proprio universo simbolico; laddove si presenti una comprensibilità di massima vi è anche la realizzazione di una possibilità di interazione; ma i dettagli espressivi si illuminano quando vengono individuati, riconosciuti e ricordati gli eventi assiomatici del brano proposto. Come vi sono musiche che risultano organicamente strutturate in modo da simbolizzare in modo particolare un autore o uno stile o un'epoca, così vi sono musiche di minore forza strutturale che rimangono imprevedibili e inaspettate, soprattutto quando l'ascolto è numericamente ridotto e quando la configurazione del suo stile è assai diversa dal vissuto dominante. In questo caso, l'ascoltatore è invitato a "assumere informazioni" facendo propri gli stessi elementi strutturanti- ecco le note esplicative e i programmi illustrativi ai concerti - e a fornirsi di mezzi conoscitivi per arrivare alla percezione estetica; laddove la musica proposta è vicina a quanto configura il mondo simbolico dall'ascoltatore non specializzato, allora la comunicazione è più facile. Ma proprio lo scarto fra chi opera attraverso la restituzione storica e chi ascolta - la stragrande maggioranza dei concerti d'organo offre tale differenziale - crea un indubbio dislivello comunicativo; l'ascoltatore dovrebbe essere esperto di quasiasi epoca e qualsiasi luogo; inoltre la mancanza del riascoltare e la disomogeneità dell'ambito culturale non possono che creare nicchie ricettive che non arrivano a compenetrarsi con chi ascolta e inseguono la modernità senza afferrarla. La persistenza del fatto storico ha motivi di sussistere se alimenta l'oggi - in qualche modo è la funzione degli evergreen organistici -, mentre chiude l'ambito a pochi cultori del museo se ricerca il ripristino fine a se stesso e pretende un superamento delle facoltà normalmente messe in atto all'ascolto. L'unicità d'esecuzione o il ridotto numero di ascolto di un brano o l'ascolto di brani stilisticamente lontani fra loro o l'ascolto di brani troppo distanti nel tempo, hanno minori possibilità di rapporti emozionali di ciò che è "moda" e raggiungono l'obiettivo in maniera generica e spesso quasi senza lasciare tracce in chi ascolta. Resterebbero ancora la spettacolarità e il virtuosismo esibito - ancora oggi componenti essenziali in qualsiasi tipo di musica - a creare un ponte comunicativo più immediato e in qualche modo ancora rispondente all'ideale di musicista esecutore provvisto di abilità tecniche: più spesso una esecuzione giunge al segno quando ricorre a queste vie anche in presenza di linguaggi distanti dalla percepibilità comune oppure quando gode di situazioni privilegiate in relazione alla monumentalità e ricchezza dello strumento.
 

Il dilemma diventa se il musicista sia attore che riveste le spoglie di altri tempi e si limita a rivivere il passato, o se gli sia possibile colmare le distanze culturali e far rivivere la dimensione estetica di quei brani; e ancora, se basti percepire l'atto musicale come evento che è artistico per il fatto che semplicemente accade o se l'atto esecutivo diventi un accadere che si riversa nella vita, reclama la ripetizione, esige una necessità, ne ammette la valutabilità, opera confronti e abita la sensibilità.
 

Quando la storia diventa un ripercorrere lo spirito, il fatto storico è in qualche modo visto sub specie aeternitatis, considerato valido nella sua interezza e dunque, crocianamente, giustificato perché storico: ciascun fatto passato nella sua singolarità partecipa della totalità dello spirito e prende il valore dell'eterno nel tempo. Da ciò è derivato il ripristino di qualsiasi fatto storico, al di là della presenza di valori tecnici oggettivi (ossia rapportati allo stile dell'epoca). I concerti storici (le esecuzioni di musiche di epoche passate in vista di una "conoscenza storica"), iniziati dagli anni ‘30 del XX secolo in poi, hanno sempre più condotto i programmi verso la riproposizione di brani del passato e la riesumazione di autori e repertori particolari. Il dato che ci interessa qui è che l'esecutore in questo caso si è trovato ad agire in un'ottica di separazione dall'attualità, a non legare con linguaggi del presente e a considerare l'esperienza estetica come rivisitazione di un momento passato. E' ben vero che tale filosofia si sostanzia di alti contenuti e può far propria la posizione di chi vuole agire nel tempo proponendo valori ritenuti veri in alternativa ad altri ritenuti meno veri, così da indicare delle strade; l'interrogativo che ne segue è se tale azione sia necessaria alla vita, se è richiesta e spendibile come formativa di un pensiero intinto nell'oggi e se il vero artistico possa abitare in misura più tesa al futuro quando è in forme legate all'attualità.
 

Se l'ascoltatore non specializzato non ha le medesime basi cognitive delle musiche che ascolta, o quantomeno una possibilità di commistione con il suo mondo simbolico, si troverà ad ammirare un oggetto storico senza penetrarne l'intima essenza. La necessità del riascoltare una musica, ciò che era dato nel passato come "stile dominante" all'incirca sempre uguale o come dato di fatto di musiche che materialmente venivano eseguite come repertorio, concede all'ascoltatore la possibilità di decodificare il messaggio e di confrontarlo con il proprio universo emotivo. L'unicità di esecuzione o, ciò che è lo stesso, la non identificazione con un mondo musicale coerente, impedisce l'attecchire di un messaggio estetico. L'operazione dell'artista-storico (esecutore in questo caso) risulta valida sotto il profilo culturale, sterile sotto quello della creazione del presente e di una corrispondenza con l'ascoltatore che ha bisogno di musiche che siano emotivamente chiare o a lui rapportabili; lo stesso fenomeno è ravvisabile nell'opera e nella classica: l'ascoltatore non specializzato riascolta poche musiche, le più note, in cui conferma il proprio mondo simbolico, non riuscendo ad immettervi tutte le altre perché si trova di fronte a linguaggi avulsi dal presente o comunque di superficiale impressione.

 

Fausto CAPORALI

 

 

 
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