IL CANTO E LA MUSICA NELLA LITURGIA ATTUALE
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Per conglobare meglio il vasto tema affidatomi, preferisco partire un po’ da lontano, vale a dire dal suono. Suono-canto-musica sono “segni che appartengono ad ogni persona”, anche se in diversa misura e tipicità. Per arrivare a celebrare “i Santi Misteri” in modo coerente e fruttuoso, dobbiamo prima chiederci se conosciamo compiutamente i mezzi che abbiamo tra le mani...
SUONO E LITURGIA
Il suono è l’elemento “primario” che abbiamo “tra le mani” nel celebrare sonoro. E’ dunque indispensabile rendersi conto di alcuni aspetti fondamentali che riguardano, talvolta molto da vicino, tutti noi.
La comunicazione sonora
Conoscenza dei parametri di base del suono
La scienza dell’Acustica ha avuto un enorme sviluppo in questi ultimi decenni. Nonostante questo c’è ancora chi, parlando di suono, confonde “piano” con “adagio”, oppure “alto” con “forte”, oppure “melodia” con “armonia”, eccetera. E’ bene perciò cominciare chiedendoci se usiamo sempre i termini esatti nel riferirci ai parametri-base del suono. Ci sono poi quattro situazioni del suono da tener presenti: I- come nasce; II- come si trasmette; III- come si propaga; IV- come viene percepito. Del primo aspetto sarebbe sufficiente dire che se non c’è corpo sonoro non ci può essere suono. Ma è anche doveroso dire che molte volte non sospettiamo di avere attorno a noi corpi sonori vibranti ed emettenti suono, mentre invece non soltanto ci sono, ma addirittura hanno su di noi un certo tipo di influsso. Ad esempio, in una chiesa ci possono essere candelieri, vasi di porcellana, riflettori, lampadine, altri corpi che, molte volte, vibrando “per simpatia” con altre fonti sonore (e possono essere anche soltanto i nostri passi sul pavimento), emettono suoni non coordinati che giungono inavvertitamente a noi (al nostro orecchio, alla nostra pelle, al nostro subconscio, in ogni modo a noi) e ci possono influenzare psicosomaticamente. Metteremo a punto il II e III aspetto quando prenderemo in considerazione il rapporto suono-ambiente. Il IV aspetto, cioè la percezione del suono, si verifica attraverso il nostro orecchio.
Tralasciando un’analisi di costitutività e di funzionamento, dico soltanto che il nostro orecchio è un trasduttore naturale (vedremo più avanti il significato di trasduttore) e che l’avvenimento base della percezione consta dell’eccitazione del liquido dell’orecchio interno, con movimenti vorticosi procurati dalle frequenze d’onda del suono e dalla trasmissione di questa sensazione al cervello, attraverso la stimolazione di un piccolo gruppo di terminazioni nervose. Va detto però che il fenomeno dell’udito è molto complesso. Infatti, in molti casi c’è assoluta interdipendenza fra aspetti di natura puramente fisiologica ed altri dovuti alla percezione psicologica del suono. Ma ci sono anche altre componenti. Ad esempio, l’udito si avvale pure di una trasmissione trans-ossea dei segnali afferenti, di notevole importanza; vi è poi da tener presente la percezione pressoria dell’evento sonoro per mezzo dei recettori della cute; infine va ricordata la vibrazione interna dovuta all’entrata in risonanza dei grandi organi cavi.
Un’altra importante componente del suono da considerare molto attentamente è il ritmo. Senza addentrarci nei complessi meandri della storia del ritmo teniamo almeno presente queste due grosse differenze, che io preferisco presentare semplicemente così: ---- c’è un ritmo libero che si basa sul comportamento della parola (sillabe toniche/sillabe àtone), per cui appoggi e distensioni (tesis/arsis, cioè battere/levare) sono dati rispettivamente dagli accenti “portanti” del discorso musicale e dai suoni “derivanti”, senza quantificazione precostituita; cosa che vale sia per il cantato che per lo strumentale; ---- c’è un ritmo misurato che si basa sulla scelta precostituita di una misura di tempo, suddivisibile numericamente nelle sue frazioni , per cui la durata dei suoni è nettamente misurabile e scandibile in modo artificiale; per tale causa, qualora ci fosse la parola, essa potrebbe venire artata o comunque manipolata a piacere. Un semplice esempio; proviamo a dire “Signore”. Proviamo poi a cantare questa parola, ad esempio sul suono di FA e con metronomo 60 al quarto, dando alla prima sillaba il valore di un quarto, alla seconda di due quarti, alla terza di un quarto. Abbiamo obbligato noi la parola ad atteggiarsi secondo il nostro volere, facendola diventare “allargata”, perciò dandogli altra tipicità.
Suono-senso; suono-segno; suono-simbolo
Ora consideriamo alcuni elementi di psicoacustica. E’ impressionante mettersi in ascolto dei suoni emessi dai vari animali. Ma dovrebbe essere ancora più importante rendersi conto che la comunicazione sonora animale, compresa quella umana, non è mai priva di senso. Non ci sono suoni emessi a caso. Ogni suono ha un suo specifico significato comunicativo connotativo, anche quando non ha un significato convenzionale denotativo (denotativo= ovvio e primario per tutti; connotativo= specifico e secondario, non ovvio per tutti. Es. fanciullo, bambino, bimbo, pupo, denotano la stessa cosa, ma hanno connotati diversi, perché evocano risonanze affettive diverse).
In sostanza, la comunicazione sonora animale è caratterizzata da tre princìpi: a) ogni emissione sonora deve fungere da segnale; b) ogni segnale è specifico; c) ogni emissione-segnale è in concorrenza con altri rumori e altri segnali (LEROY Y., L’universe sonore animal in “Journal de Psychologie”, 1977)
“In humanis” però intervengono le cosiddette “interpretazioni”, le quali derivano, in genere, dalla conoscenza dei parametri fondamentali del suono e dalla percezione dei suoni filtrata da informazioni vaghe, aspecifiche, ambigue, ecc. Per cui, ad esempio, di fronte al segnale specifico dell’altezza del suono, visto che l’orecchio umano percepisce maggiormente gli armonici dei suoni bassi, mentre quelli dei suoni alti sono considerati “ultrasuoni’, tendiamo a dare ai suoni alti il senso di “purezza, limpidezza”, mentre diciamo dei suoni bassi che sono “scuri, densi”. Sono interpretazioni psico-socio-culturali. Tra l’altro il “culturale”, proprio perché tale, procura altra varietà di interpretazioni. Ad esempio Ujfalussy (L’aspetto musicale della realtà , Budapest 1962) segnala che nella lingua popolare ungherese i suoni acuti vengono detti “sottili”, i bassi “grossi”. Parecchi etnomusicologi concordano nell’affermare che alcuni accostamenti sono invece comuni a tutti; ad esempio la serie basso-scuro-pesante viene associata facilmente alla sensazione di cupo-minaccioso. Se si aggiunge un effetto timbrico deformante diventa facilmente diabolico-terribile.
Questi brevi cenni dovrebbero già essere sufficienti a suscitare una prima riflessione: quanto sono faciloni coloro che pensano di usare un’amplificazione a “toni scuri” , perché è “più robusta”; o peggio coloro che restano indifferenti al “chiaro” o allo “scuro”. Sono ancora troppi coloro che non si pongono domande sul senso dei suoni ; in tal modo, la parola liturgica e il momento rituale non acquistano senso e, ovviamente, si fanno celebrazioni ... senza senso. Senso-segno-simbolo del suono, anche in liturgia, sottostanno al rapporto tra vari elementi (individuali, culturali, biologici, psicologici, ecc.) ed è in conformità a questo rapporto che va studiata la relazione suono-rito. Si vedano, a questo proposito, i vari apporti di studio del gruppo “Universa Laus”, apparsi nelle varie riviste liturgiche e liturgico-musicali, nazionali e internazionali, in questi ultimi 30 anni.
Il rapporto persona umana-suono
La persona umana è sonoro-musicale e viene prima della musica-oggetto
Certamente la relazione persona umana-suono va studiata nelle sue varie dimensioni (antropologiche, psicologiche, fisiologiche, sociali). Qui ci si deve limitare ad alcuni punti.
Anzitutto dobbiamo tener presente che il primissimo rapporto della persona umana con il suono è nella persona umana stessa. Le ricerche di Tomatis (“L’orecchio e la voce”, Baldini & Castoldi, Milano 1993) e di altri autori hanno dimostrato che dal quarto mese della vita intrauterina il feto coglie, a livello cocleare, i suoni della fascia di frequenza media corrispondenti alla voce materna. Più precoce ancora è la capacità di percepire, attraverso canali vestibolari, i suoni a frequenza bassa prodotti dall’organismo materno (il battito cardiaco, il rumore ritmico della respirazione, i borborigmi gastrici intestinali). Questi stimoli sonori sono chiamati “musica interna”. Essa, dopo la nascita, andrà a collocarsi, dal punto di vista dell’evoluzione percettivo-comunicativa, in un’area intermedia tra immagine e parola, che può promuovere (e richiedere) atti mentali profondamente trasformativi.
L’altro rapporto della persona umana con il suono si verifica attraverso la “musica oggetto”, ossia quella che sta al di fuori della persona umana, ma che la influenza , soprattutto per i suoi rimandi percettivi e di pensiero, cognitivi ed affettivi, ai processi rappresentativi interni di cui sopra. Una gestione matura della “musica oggetto” non rischierà mai di portare verso la regressione (ossia farci tornare a livello di feto), mentre un funzionamento mentale di questo tipo caratterizza , ad esempio, una certa sottocultura giovanile (intesa come condivisione di un codice di valori superficiali ed effimeri, legati prevalentemente al bisogno e al contingente) tendente alla ricerca dell’automantenimento, senza critica elaborazione e consapevolezza (cfr. Postacchini, Ricciotti, Borghesi, “Lineamenti di musicoterapia”, Ed. La Nuova Italia Scentifica 1997).
Ad esempio, per quanto ci riguarda, può succedere che un gruppo giovanile faccia apparire sulla stampa questo annuncio: “I giovani della Pastorale Giovanile delle parrocchie di ... e di ..., invitano tutti i giovani amanti della compagnia che hanno voglia di cantare e d’imparare canzoni nuove per divertirsi, a ritrovarsi in chiesa ogni mattina della domenica e delle altre feste comandate” (in “Corriere delle Alpi”, 16 ottobre 1996). Ogni commento mi sembra superfluo.
Udire e ascoltare
Udire: il suono arriva alla mia persona, ma io non ne vengo coinvolto in modo totale, perché non mi interessa porre l’attenzione su “quel” suono. Resta comunque il coinvolgimento inconscio. Quanti suoni udiamo? Moltissimi (anche contemporaneamente) o pochissimi, secondo i luoghi in cui siamo. E mentre “udiamo” possiamo compiere anche altre azioni che ci interessa svolgere. Se questo “udire” è voluto come “sottofondo”, diventa positivo; diversamente può crearci fastidi più o meno consci. E’ ciò che succede molte volte anche durante le azioni liturgiche, specialmente se celebrate all’aperto, allorquando siamo attorniati da suoni vari, della città, della piazza, della folla incapace di raccoglimento silenzioso, ecc. In questi casi bisogna imparare a difendersi: vedremo qui di seguito come.
Ascoltare: certamente in questo caso ci si mette in ascolto. Ma ci può essere un ascolto attento e uno attentivo. L’ attento è ancora passibile di sudditanza a disturbi esterni. L’attentivo invece costituisce la profonda attività dell’attenzione, per cui io ascolto unicamente e soltano l'avvenimento sonoro che intendo ascoltare. Ma questo proviene da un insieme di tanti elementi: silenzio interiore, distensione, ascolto con tutti i sensi, con le orecchie, la mente, il cuore, la fantasia, la memoria, le competenze tecniche e culturali; ascoltare per percepire, per una propriocezione totale, per cogliere, capire, sentire, immaginare, pensare, ricordare. È dunque proprio l’ascolto attentivo che ci offre la possibilità di isolare i rumori/suoni di fondo; la nostra mente sa fare anche questo. Occorre però allenarsi. Tale atteggiamento servirà soprattutto quando saremo di fronte alla Parola.
Coinvolgimento psicosomatico e spirituale
L’orecchio interno contiene già nella sua struttura un rapporto psicosomatico, essendo il vestibolo relato al soma e la coclea alla corteccia cerebrale, la quale, per i neuropsicologi, è la zona della psiche. La concezione classica considera la coclea deputata all’ascolto e il vestibolo all’equilibrio. In ogni caso è un dato di fatto che una vibrazione acustica investe sia i liquidi della coclea sia quelli del vestibolo. La differenza sta nel fatto che a colpire le cellule acustiche della coclea sono le frequenze corrispondenti ai suoni melodici, mentre le onde di pressione sonora pulsativo-ritmica provocano altri movimenti periodici nei liquidi del vestibolo. Da quest’ultimo nasce un riflesso audio-muscolare, in altre parole un’azione dinamica, che si traduce nel movimento del corpo. Questo avvenimento all’inizio è vissuto inconsapevolmente a livello somatico. Lo si vive consapevolmente soltanto se si considera l’esperienza in seguito, guardando al passato. Allora può essere còlto nel suo valore estetico: e qui interviene il livello corticale, vale a dire l’operazione della psiche (Ansaldi G., “La lingua degli angeli”, Guerini Studio, Milano 1993).
Il coinvolgimento dello spirito dove si colloca? Siamo olistici, dunque la parte più profonda del nostro essere è intimamente legata alle altre. Soma, Psiche, Pneuma, sono insieme un tutt’uno e si influenzano a vicenda. Dunque il suono che agisce a livello psicosomatico agisce pure a livello spirituale. Ma è chiaro che più io dò spazio alla scansione pulsativa ritmica, magari di tipo isocronico, ad alti volumi, di un corpo sonoro e più sarà stimolato in me il vestibolo, dunque il riflesso audio-muscolare somatico, con appannamento degli altri due livelli, cioè quello psichico e quello spirituale.
Integrazione, armonizzazione, sintonizzazione
Anche in liturgia l’impiego di suoni-musiche deve essere in grado di favorire nella persona la gestione dei vissuti corporei e delle rappresentazioni mentali che si verificano nei riti. Questo, secondo me, a somiglianza di quanto avviene in musicoterapia, può avvenire attraverso l’integrazione, l’armonizzazione, la sintonizzazione.
Per integrazione si intende una chiarificazione da parte dell’individuo fra costituzione del mondo interno e costituzione del mondo esterno che si attua per gradi e cioè: ---- consapevolezza di occupare una propria posizione nello spazio (identità corporea e spaziale); ---- capacità di organizzare rappresentazioni di sé tali da avere chiaro il sentimento di essere e rimanere se stessi nonostante i cambiamenti che contrassegnano il corso dell’esistenza; ---- raggiungimento dell’integrazione sociale, cioè capacità di articolare correttamente il processo relazionale “io/altri”.
Raggiungere l’integrazione fino al massimo livello dovrebbe essere obiettivo di tutti. Per conseguirlo però bisogna passare attraverso una successione di eventi chiamata armonizzazione, la quale si realizza attraverso una tecnica chiamata sintonizzazione.
Il processo di armonizzazione avviene quando all’interno della persona si compie un’adeguata integrazione tra sensazioni corporee, stati emotivi e sentimenti. Suono-musica dovranno quindi aiutare l’armonizzazione degli analizzatori sensoriali e motòri, portando ciascuno di essi a integrarsi nell’organizzazione mentale complessiva, in modo che ci sia sufficiente fluidità nei rimandi dal sensoriale al motorio, dal visivo al tattile, dal tattile all’olfattivo, e così via. Ma altrettanto fluido dovrà essere il passaggio tra i momenti di percezione sensoriale e quelli di elaborazione mentale. Infatti è senz’altro vero che, nelle esperienze di eccessiva intellettualizzazione, il corpo può essere disinvestito pressoché totalmente di significato. Il dualismo mente-corpo deve lasciare il campo alla possibilità di integrare le sensazioni corporee negli schemi mentali (Postacchini, Ricciotti, Borghesi, op. cit.). Teniamo ben presente questo passo se vogliamo celebrare con suono-musica in modo veritiero.
Ma veniamo alle tecniche sintonizzanti. Secondo la teorizzazione di Stern, le sintonizzazioni costituiscono il fondamento di qualsiasi modalità di comunicazione non verbale (suono-musica senza parole, di cui si fa largo uso anche in liturgia). Bisogna considerare il fenomeno a partire da ciò che avviene nella primissima infanzia. Ad esempio: ad una proposta vocale del bambino, la madre risponde con una carezza; a un toccamento risponde con un sorriso; ecc. Con questo tipo di comunicazione si pongono le basi percettive delle future operazioni di tipo simbolico. Proseguendo nel suo cammino vitale, la capacità del bambino di sintonizzarsi a proposte materne di tipo verbale, motorio, sensoriale e la armonica corrispondente capacità materna di sintonizzarsi su proposte del bambino, costituisce il primo evidente emergere dei processi rappresentativi e dell’identità personale. Resterà comunque sempre nella persona questa radice di comportamento, per cui le azioni primarie avverranno nell’area del guardare, del sentire, del toccare, cioè nel sensoriale, mentre i processi rappresentativi maturi avverranno nell’area del vedere, dell’ascoltare, del discriminare (Stern, “Affetti, natura e sviluppo delle relazioni interpersonali, Laterza, Roma-Bari 1987).
Il sonoro utilizzato potrà alimentare i processi di sintonizzazione intra e interpersonale, se si baserà sull’analisi delle qualità parametrali fondamentali e sul loro intelligente impiego. Qualche esempio (tenendo sempre presente, come ho già accennato, che accanto a questi fattori ve ne sono altri di natura più specificamente culturale o inconsci, legati alle vicende emotive dell’età evolutiva dell’individuo). Suoni di elevata velocità, bassa intensità, e breve durata, rimandano a dimensioni spaziali, in questo caso al senso del “piccolo”; viceversa suoni di elevata velocità, breve durata, ma forte intensità sono più pertinenti ad esprimere fenomeni aggressivi. Qualora il parametro fondamentale scelto sia il timbro, per aiutare la sintonizzazione bisognerà tener presente che il fonosimbolismo sottostante è soprattutto imitativo, per cui, ad esempio, un timbro che richiamasse uno sgocciolìo, porterà alla mente immagini relative (Postacchini, Ricciotti, Borghesi, op. cit.).
Proviamo a fare una veloce applicazione per la liturgia. Un sottofondo con timbri violeggianti non è adatto per aiutare una mia sintonizzazione intra e interpersonale celebrativa nel contesto di un forte rito acclamatorio. Così pure, certamente non mi “sintonizza” un corale organistico di J.S. Bach costruito su tema ben conosciuto (quindi mi dis-toglie), con contrappunti svolazzanti e suonato con una dinamica “spinta” a “commento” (?) di una pacata e breve “Parola di Dio”, il cui contenuto nulla abbia a che fare con quel tema di corale luterano (è successo nella Cappella Sistina e proprio durante una celebrazione con un gruppo di esperti che aveva poco prima discusso anche di queste cose!).
Dobbiamo assolutamente chiedercelo: dove porta un certo repertorio, una certa intepretazione del repertorio stesso, una certa voglia di esibizione, una certa dimenticanza delle persone reali e via dicendo? Con i suoni viviamo una liturgia in modo integrato, armonizzato, sontonizzato o non piuttosto schizzoide o perlomeno immaturo? A questo proposito non si può ignorare che gli immaturi non vanno “eliminati” ma piuttosto aiutati. Una buona soluzione può essere desunta anche per il contesto liturgico, da quanto suggerisce il Prof. O. R. Benenzon (“Manuale di musicoterapia”, Borla, Roma 1992) parlando del trattamento degli immaturi; vanno presi così come sono e al punto in cui sono, con i loro suoni e i loro movimenti, aiutandoli, gradualmente, a compiere un’integrazione matura della personalità.
A ben vedere questo è esattamente ciò che è stato considerato, prospettato e fatto (e si continua a fare) da parte del gruppo di studio UNIVERSA LAUS, attraverso le proposte per celebrare con i fanciulli, con i giovani, con gli adulti, nel rispetto delle identità oltre che della “unità nella diversità “ (cosa chiaramente illustrata dai documenti conciliari), ma anche nel giusto richiamo e nell’indicazione di ciò che maggiormente può aiutare a raggiungere una buona maturazione dal lato celebrativo.
Il rapporto suono-ambiente
Vari tipi di vani/chiesa
Per noi deve essere molto chiaro che il vano/chiesa è una cassa di risonanza e che la tipologia diversificata del vano/chiesa non corrisponde soltanto a un determinato stile, ma a una determinata risposta al suono.
Architettura e suono
Tra vani estremamente risonanti e vani anecoidi (cioè privi di qualsiasi, anche minimo, riverbero) è bene trovare l’equilibrio a pro del nostro celebrare. Purtroppo, per molte chiese costruite in tempi di “teologia dell’arcano” (ma se ne costruiscono ancora oggi così!) non s’è pensato al benché minimo intervento per adattare gli spazi alle celebrazioni post-conciliari. Celebrare all’aperto
È evidente che un piccolo gruppo non incontrerà problemi in tale situazione. Questi nascono in occasione di celebrazioni di massa. E ormai siamo abbastanza abituati a vederne e magari a gestirne. Le soluzioni fondamentali per quanto riguarda la diffusione del suono risiedono nell’amplificazione, che andrà curata sia dal lato della qualità, che della postazione e direzionalità. Evitiamo di farci deridere da chi la sa lunga nel mondo dello spettacolo, ma soprattutto evitiamo di rendere un cattivo servizio (il che vuol dire celebrare per celebrare) alla Parola di Dio. La nuova frontiera del suono: l’elettronica e il digitale
Un primo suggerimento: diffidiamo di amicizie, conoscenze, persona fidata, l’ha fatto anche il tale. Assicuriamoci piuttosto della sicura affidabilità tecnica, attraverso gli autentici competenti, gli specializzati in materia. Si spenderà qualcosa in più, ma il rispetto per la resa liturgica sarà assicurato. Non mi dilungo: occorrono ottimi microfoni, un ottimo amplificatore, casse acustiche di riproduzione (altoparlanti) che permettano un ascolto ottimale.
Gli elettrofoni
Il più conosciuto è senz’altro il sintetizzatore di suoni, munito di una tastiera, simile a quella di un organo o di un pianoforte, con poche o molte ottave. A seguito del rapido progresso tecnologico questo strumento ha subìto e continua a subire un’infinità di trasformazioni; ne escono in continuità nuovi tipi. Il Sint. può spaziare nell’intero campo delle frequenze udibili; l’intensità/volume di suono può essere variata a partire dai minimi fino ai massimi valori di soglia; certo molto dipenderà dagli amplificatori e dagli altoparlanti. In ambito liturgico il Sint. può essere di grande aiuto, ma può anche diventare, in parte, un apparecchio pericoloso. Strumentisti liturgici non esperti possono “giocarci” e “distrarre dal rito”, usando timbri inopportuni, e magari innestando le percussioni elettroniche da “disco music”. I pastori aiutino anche in questo i loro animatori più sprovveduti. Il discorso sulla “maturazione” , di cui sopra, dipende molto da loro.
La “campionatura” (o “campionamento”)
È l’uso del processo digitale nella registrazione e susseguente riproposizione fedele del segnale registrato. La riproposizione fedele del suono originario è legata alla più o meno perfetta operazione di fissaggio, come pure all’amplificazione e alla diffusione. Se l’operazione complessiva di campionamento-amplificazione-diffusione sarà accurata, potremo avere “in casa nostra” i suoni del Principale 8’ del I Manuale dell’organo xy. Suono e sinestesie (ascoltare-sentire-vedere-fiutare-toccare il suono . La Sinestesia genericamente è definita: <trasposizione o scambio di proprietà da un senso ad un altro>. Vista, udito, gusto, olfatto e tatto hanno ciascuna una proprietà specifica. Si verifica in me sinestesia totale se, ad esempio, in un ascolto musicale comune, io dico di non sentire alcun suono, ma piuttosto un odore o una serie di odori, mentre gli altri (o quasi tutti gli altri) sentono soltanto i suoni e nesun odore. Oppure, in altro caso, dico di sentire il gusto di un buon dolce mentre ne vedo soltanto la rappresentazione visiva.
Quelle, però, che maggiormente si verificano sono le relazioni sinestesiche. Subito un esempio per farmi capire. Ascolto un pezzo musicale con un certo tipo di ambientazione, ad esempio con la presenza di pannelli blu che io osservo. Finito il pezzo tolgo questi e metto dei pannelli rossi. Riascolto lo stesso pezzo musicale, osservando i pannelli rossi. Il suono è diventato aggressivo. Un’ambientazione diversa procura delle varianti di significato allo stesso identico pezzo musicale. Non è cosa di poco conto se la applichiamo alla liturgia! Certo, ci sono persone più o meno sinestesiche, come pure persone che non proveranno mai la sensazione sinestesica, o non avranno il coraggio di manifestarla, perché troppo cerebrali, incapaci di “lasciarsi andare all’avvenimento”, quasi perennemente in atteggiamento aggressivamente critico. Nonostante queste grandi possibili diversità di reazione da parte dei partecipanti alle celebrazioni, non esattamente quantificabili, noi dovremmo comunque sempre stare attenti agli accostamenti sensoriali durante i riti. Ad esempio: in quanti pensano alla relazione olfatto/suono? Come si fa a cantar bene o suonare cose eccelse in certe chiese graveolenti, buie, in cui c’è di tutto, in cui regna il pacchiano, il “kitsch”?
CANTO E LITURGIA
L’ insegnamento della tradizione primitiva
In quel periodo il suono-canto si limita a “dar voce al testo”, non “usa” il testo come pretesto per divagazioni vocali. Lo strato fondamentale del canto liturgico romano primitivo è costituito dai recitativi, ossia formule, per le orazioni, i versetti salmodici, le acclamazioni, i dialoghi, alcuni tra gli inni più antichi, i prefazi, il Pater noster, le litanie, il Sanctus (XVIII nel “Liber Usualis”), il Te Deum, il Gloria (XV nel “Liber Usualis”), i ritornelli su testi salmici. Si può notare che tutte queste melodie, di tipo formulistico, sono perfettamente aderenti alla parola e al momento rituale e, compositivamente, sono di un’estrema semplicità. Ben si può capire il perché: appartengono a quel periodo che va fino al sec. V, in cui tutto il popolo partecipava attivamente al canto liturgico. Con il sec. VI si apre la strada all’ “élite”, i melòdi e i “cantores”, che creano ed eseguono pezzi sempre più ornati, melismatici, lasciando al popolo le briciole o addirittura ammutolendolo. Siamo dovuti arrivare fin quasi al 2.000 per “cominciare a raddrizzare la rotta! Convinciamoci, perciò, che siamo soltanto agli inizi.
Forme vocali in relazione ai vari riti
In contrasto con la pre-conciliare “stilizzazione”, legata al “congelamento rituale”, si rendono ora necessari vari gesti sonoro-vocal-canori. Andrebbero considerati e illustrati uno per uno, ma in questo contesto permettetemi di citarli soltanto, anche perché so che, almeno in parte, sono stati già trattati.
La de-clamazione
La pro-clamazione
L’ac-clamazione: grido e inno
La cantillazione
Forme compositive
La formula salmodica
Il recitativo
La litania
Il Tropario
La monodia contemporanea
Polifonia vocale contemporanea
Canto accompagnato contemporaneo, con coinvolgimento di Assemblea, soli, coro, strumenti
Tutti questi gesti e forme compositive sono ancora troppo poco applicati in giusta maniera, sia dai compositori che dalle varie comunità cristiane. La relazione testo-musica è ancora troppo poco curata. Ciononostante vi è un “pusillus grex” che crede fermamente nel rinnovamento liturgico anche dal lato musicale e lavora indefessamente perché il Mistero Pasquale di Cristo sia cantato con tutte le sue differenziazioni e relative forme simboliche richieste, affinché il “segno segni”. Vi è infatti una piccola ma significante produzione attraverso la quale Presidente, Assemblea, Coro, Soli, Strumenti, si esprimono con canto-suono-musica-movimento, in aderenza ai vari, differenziati riti. Anzi, qualche coraggioso che guarda avanti, legge tra le righe dei documenti e azzarda alcune proposte liturgico-musicali che paiono particolarmente invitanti e stimolanti, ma comunque al posto giusto, anche se innovative. Tra l’altro non restano a livello di proposta “sulla carta”, ma vengono realizzate, dimostrando così la loro aderenza ad una ritualità più che mai viva, vera e attuale.
Canzone e canzonetta: quali termini di giudizio
Fino verso il 1920 la canzone era ancora molto simile alla “romanza” di fine ‘800, ossia soprattutto s’ imponeva la melodia ben cantata; stilisticamente la si può porre tra il genere lirico e le ballate del cantastorie. Negli anni 30/40, specialmente a fine guerra mondiale, anche in Italia si impone decisamente l’influsso nord-americano della canzone molto ritmata, con scansioni sincopate oppure con accentuazioni forti date dalle percussioni. Tra l’altro nascono forme di ballo molto movimentate, che si staccano decisamente dalle classiche forme del cosiddetto “liscio” (valzer, tango, mazurka, ecc.). Quel che più si nota è la mutazione della relazione parole/musica. Nella canzone melodica si cantavano testi significativi e magari impegnati, nella canzone ritmica solitamente il testo interessava poco, anche perché tale canzone era soprattutto finalizzata al ballo. Da questa distinzione si possono trarre per il nostro oggi alcuni termini di giudizio.
Anzitutto teniamo presenti alcuni princìpi fondamentali: “La Chiesa non ha mai avuto come proprio un particolare stile artistico” (SC, n° 123), per cui anche la canzone, melodica o no, ha tutto il diritto di entrare in liturgia, “purché corrisponda allo spirito dell’azione liturgica e alla natura delle singole parti e non impedisca una giusta partecipazione dei fedeli” (IMS, n° 10).
Talvolta, perché il messaggio liturgico della celebrazione sia “incarnato”, per quella comunità, per quelle determinate persone, in quel “qui e ora”, occorrerà proprio che le parole rituali vengano espresse con il linguaggio-canzone e con uno stile melodico. Per un altro rito, ad esempio una situazione molto acclamatoria, sempre per quel tipo di persone, occorrerà un linguaggio-canzone che contempli uno stile a scansione ritmica accentuata.
È qui che si innesta il giudizio: quale melodia? quale scansione ritmica? Mentre preparo la liturgia (sia dal lato compositivo che di animazione) so vagliare bene se quella melodia è adatta a quel testo per quel rito o la scelgo “perché piace”? E quel ritmo: aiuta l’acclamazione o soltanto mi fa “muovere”, e magari battere le mani, “ma il mio cuore è lontano da Lui” (Is 29,13)? Insomma, si tratta di canzoni per celebrare o di canzonette per far contenti gli allocchi? C’è un altro passo della Parola di Dio che ci scuote: “Il culto che mi rendono è un imparaticcio di usi umani” (Is 29,13). Si potrebbe fare anche un’analisi musicologica dell’artisticità a confronto della banalità (ad esempio si vedano certi procedimenti a base di formulette tipo q e e ripetute infinite volte e banalizzanti o addirittura storpianti il testo). Preferisco piuttosto fermarmi al concetto di incarnazione e di aderenza al gesto rituale.
Mi permetto soltanto una breve aggiunta: non fanno certamente una buona cosa quelle comunità o gruppi che, per essere “moderni” vogliono inserire canzoni nelle loro liturgie, mentre ci si accorge distante un miglio che non è pane per i loro denti. Non sanno rispettare e interpretare le sincopi, rallentano i tempi in modo ridicolo, sghangherano l’accentuazione delle parole e via dicendo. All’opposto ci sono gli accaniti oppositori della canzone, di qualsiasi genere e stile si tratti. Molte volte ti accorgi che il perché dell’opposizione risiede nel fatto che questi signori non sarebbero nemmeno in grado di compiere, di tale linguaggio, una decente realizzazione, perché mancano di duttilità psicosomatica, non possiedono, neppure in minima parte, la sensibilità swing e demonizzano il sincopato semplicemente perché lo conoscono soltanto teoricamente. E’ un po’ la storia della volpe che non arriva a prender l’uva...:”Tanto, è acerba”...
Dal “bel canto” alla “vocalità per celebrare i santi misteri”
L’esposizione vocale della “bella voce” o della cosiddetta “voce impostata”, sia solistica che corale, sia del presidente e dei ministri, che dei vari solisti e coristi, è uno stile che si è instaurato anche nella liturgia, attraverso la maggior parte delle interpretazioni delle famose “Messe cantate” perosiane e simili, e dei vari “mottetti”, interpretazioni che si rifacevano alla vocalità lirico-melodrammatica, così cara alla maggioranza degli italiani fino a non molto tempo fa. In realtà molte volte, purtroppo, non si trattava nemmeno (e non si tratta, visto che ci sono ancora tali “esecuzioni”, qua e là) di “bel canto”, ma di “emissione a tutta voce” in cui è appunto la voce e non la parola a primeggiare. Talvolta si sentono ancora frasi allusive: “Quelle sì che erano belle Messe”...
Nell’immediato post-Concilio Vaticano II vi fu una ribellione da parte dei giovani e qualcuno andò all’opposto. Nacquero vocalità volgari e sguaiate anche nella liturgia, che ora paiono scomparse. Penso che per “essere segno”, celebrando “i santi misteri” , un “ministro del canto” debba decisamente prendere coscienza anche di questo problema. Dovrebbe curare una vocalità parlata-cantillata-cantata che punti sul modo migliore per rendere il segno rituale vero e significante, affinché diventi efficace.
Il canto degli attori della celebrazione
Il Presidente, l’assemblea, il coro, il salmista, il solista, il diacono e il lettore, hanno, ciascuno, un ruolo specifico e perciò dovrà essere contemplata una loro modalità specifica di intervento gestuale e cantato (o comunque vocale), perché il gesto celebrativo risulti veritiero. Si tenga però presente che vale comunque sempre il concetto basilare secondo il quale suono-canto-musica-movimento sono patrimonio celebrativo di tutti, anche quando è uno solo o pochi o un gruppo a intervenire. Quanto al gesto canoro appropriato per ciascuno si deve far riferimento ai gesti e alle forme vocali di cui abbiamo fatto cenno pocanzi.
Cosa significa: “Rispetto della tradizione”
Riflettendo bene su ciò che dicono i documenti, in sostanza si può dire che qui si tratta di decidersi a capire che non ci vien detto di riprendere in mano tout-court il repertorio del passato, se non per situazioni a cui accennerò in seguito. Si tratta invece di ispirarsi ad esso. Cosa significa? Mi pare di poter dire che sia il gregoriano del fondo romano-franco, sia la polifonia rinascimentale, possono costituire quella “tradizione” a cui legarsi, se ne scorgiamo alcune particolarità a cui agganciarci, pur guardando avanti, ossia componendo per le nostre odierne celebrazioni, con un linguaggio e uno stile che non ne ripeta pedissequamente le tipicità. Quali sono queste particolarità? Consistono in quell’ <humus>, o <sapore>, o <immagine complessiva> che può ispirare oggi ancora le nostre architetture musicali, così come alcune linee arcaico/classiche ispirano ancora oggi gli architetti per le forme architettoniche delle nuove chiese.
Scrive Cettina Militello: “Il nostro secolo muoverà alla ricerca di nuove forme, [º] vòlto -dopo il Concilio Vaticano II - alla fatica di adeguare lo spazio a un modello ritrovato di chiesa comunione. Sì, perché il mutare delle forme ci conduce sempre e comunque a recepire un modello e un’ istanza di comunione o ad allontanarla additando come preferenziali i percorsi disgiuntivi di laici e chierici. Le forme sempre e comunque sottolineano tutto ciò. La storia dell’edificio cristiano è storia del rapporto del popolo di Dio al suo interno; è storia della sua non facile trasparenza, del suo scacco o della sua vittoria nel segno inclusivo di una comunione prossima a quella comunità delle origini che con la gioia nel cuore spezzava il pane nelle case”.
È una buona linea anche per suono-canto-musica. Pure noi di Universa Laus abbiamo parlato di “modelli operativi”. Un solo esempio. Da gregoriano e polifonia proviamo a desumere le movenze intervallari e le sovrapposizioni di 4a e di 5a; “giochiamole” poi dal lato ritmico, melodico, armonico, contrappuntistico, disponendole intelligentemente in base alle richieste rituali; distribuiamo il “gioco” tra i vari attori della celebrazione, riservando a ciascuno una parte ritmica, melodica, armonica, contrappuntistica, che gli possa convenire, e il segno della comunione, espresso in forma attuale, ma in legame di radice con la tradizione, si sarà realizzato.
E magari, come compositore, ne avrai anche gratificazione, quando ti sentirai dire: “Il tuo linguaggio musicale è nuovo, ma non sconvolgente”. Che è poi la richiesta conciliare e post-conciliare dei documenti ufficiali: si creino musiche nuove, ma non strane, anzi, scaturiscano, in qualche maniera, dalle forme già esistenti (MS, cap. VII).
MUSICA E LITURGIA
Da musicista “per la liturgia” quale sono ho provato a discutere con qualche “musicista-solo-musicista”: mi sono preso del “liturgologo”, del “traditore della musica”, con l’aggiunta della solita frase: “Una volta la Chiesa era protettrice delle arti”. Come se il grande, attuale Papa non avesse parlato agli artisti e come se la Chiesa, nella Liturgia delle Ore (vedi i Vespri del Martedì della III Settimana) non avesse scritto: “Agli artisti affidi la missione di rivelare lo splendore del tuo volto: fa che le loro opere portino all’umanità un messaggio di pace e di speranza”. Evidentemente vale sempre il detto: “Non c’è più sordo di chi non vuol sentire”. Purtroppo si deve costatare che al musicista impegnato soprattutto nell’arte non interessa sapere e approfondire qual’è il vero scopo di suono-musica-movimento nella liturgia odierna. A lui interessa la salvaguardia dell’arte intesa a modo suo, ossia “l’arte per l’arte” (già condannata da Pio XII nell’enciclica Musicae sacrae disciplina). E allora ti capita di sentire ancora la grande definizione laica: “Dal momento che è arte, automaticamente va da sé che sia anche sacra”.
Quale musica allora per l’oggi della Liturgia? Non posso fare altro che delineare alcuni punti -base, frutto della riflessione fatta sui documenti aggiornati vale a dire sui Principi e norme (IGMR, 1983; IGLH, 1970), che sono apparsi nei vari documenti per la Chiesa universale e per la nostra Chiesa italiana, e ai quali, in parte, mi sono già riferito nei primi due punti trattati. In realtà il fondamento è la conoscenza di questi lineamenti, la quale purtroppo solitamente manca, per cui si discute all’infinito basandosi su idee e sensazioni personali.
a) C’è ancora posto per la cosiddetta “grande musica” pre-conciliare?
Cito una splendida puntualizzazione dell’ acuto e sempre attentissimo musicologo liturgico, Mons. Felice Rainoldi: Suono-canto-musica “partecipano della dimensione sacramentale della liturgia; sono elementi simbolici di realtà essenziali e non ornato esteriore; sono incarnazione in strutture comunicative della Parola e delle parole del dialogo salvifico e non ingredienti vagamente mistico-estetici di un culto religioso” (F. Rainoldi, in: “Canto e musica”, Nuovo Dizionario di Liturgia, Ed. Paoline, Roma 1994). Quindi attenzione a certe celebrazioni che sanno più di manifestazione della “grandeur”, che non di celebrazione dei Santi Misteri. Esempio sintomatico (meglio, mal-esempio, che spero proprio non si ripeterà più) l’ “esecuzione” (tra virgolette!) in S. Pietro (la “chiesa madre” che dovrebbe essere esemplare!) di una “Messa” di Mozart, diretta da Von Karajan. Nessun commento. La cosa poi ti lascia perlomeno perplesso quando vieni a sapere che per festeggiare un 50° di ordinazione presbiterale si risfodera ancora una “Messa” di Mozart, facendo di una festa di popolo al e con il pastore illuminato (era persona impegnata anche a livello di animazione liturgica!) una “Messa concerto”. Per noi semplicemente s-concertante!
b) Confronto tra il “solismo” pre-conciliare e il post-conciliare
“Criticate tanto i solisti delle Messe preconciliari mentre anche voi avete tutti questi salmisti e solisti vari nelle vostre canzoni”. E’ una delle critiche che ci siamo sentiti rivolgere, specialmente nei primissimi tempi del cammino liturgico riformato. La risposta è semplice: le “arie” e i solismi mottettistici preconciliari si riferivano soprattutto a una scrittura e a una modalità esecutiva che appartenevano più all’esibizione artistica che alla interpretazione di un “gesto sonoro” per uno specifico contesto rituale. Quanto al canto, poi, era importante che ci fosse un “superdotato vocale” a interpretare “la parte”; non bastava una persona intonata che sapesse pronunciare bene il testo ed esprimesse bene il momento rituale. Oggi il solista, anziché primeggiare con lo splendore vocale, deve piuttosto nascondersi dietro la parola: spetta ad essa il primato.
c) Quale “grande musica” del nostro oggi per l’ attuale liturgia riformata
Dobbiamo fare una breve panoramica: in che cosa consistono il festivo e il celebrativo di grandi avvenimenti; quali forme, linguaggi, stili e formazioni vocali-strumentali possono esserne implicati Festivo/solenne vuol dire “pomposo” o non piuttosto maggiore partecipazione attiva articolata? E’ infatti quest’ultima la regola postconciliare: “ Non c’è niente di più solenne e festoso nelle sacre celebrazioni di un’assemblea che, tutta, esprime con il canto la sua pietà e la sua fede” (MS 16). Certo nei grandi avvenimenti si coinvolgeranno maggiori forze sia vocali sia strumentali, ma solo perché esprimono più compiutamente la ricchezza di espressioni di tutta un’assemblea in festa.
Ecco allora la varietà di forme, di linguaggi e di stili per i vari riti, con il coinvolgimento di tante persone che cantano e suonano nel rispetto dei loro ruoli: il presidente, il diacono, gli eventuali concelebranti, la parte di assemblea che sta nella navata (navate), il coro (più o meno polifonico) che sta nel suo luogo vicino alla navata , il salmista, i solisti (che possono essere diversi secondo i vari riti), gli strumentisti (con differenziazione di strumentazione in base alla significatività dei vari riti, alla fonica del luogo in cui si celebra e al tipo di assemblea/coro/soli da sostenere e accompagnare). Ci sarà naturalmente la scelta di repertorio. Questo potrà anche essere “impegnato”, se l’assemblea è in grado di farlo proprio, ossia di immedesimarsene per celebrare.
d) Il melodico feriale; il polifonico feriale; lo strumentale feriale
L’esempio di questo modo di procedere ci viene anch’esso dalla tradizione ed è senz’altro un buon esempio: è bene conservarlo. In troppe comunità , per il vero, si fa poca differenza a riguardo di “ferialità-festività”. Ad esempio c’è chi canta e suona beatamente anche durante le grandi ferie di Quaresima. Al contrario, c’è chi “dice” pigramente un Messa di Pasqua o di Pentecoste. Non sia mai che lo si faccia per la notte di Natale: lì si scatenano tutte le spifferate possibili e immaginabili, soprattutto con le “cante” legate alla tradizione (del paese o della parrocchia: altro che gregoriano!); per cui ti capita magari di sentire il parroco che, dopo le due consacrazioni (del pane e del vino), si rivolge all’assemblea e dice, in dialetto: “Adesso ci sediamo tutti e ascoltiamo la pastorella, perché è nato Gesù”!
È bene perciò chiarirci le idee. Vediamo cosa ci insegna la “tradizione genuina”:
° il melodico feriale è più “asciutto”, ossia è sillabico, non ornato;
° il polifonico feriale è in riferimento ad alcuni momenti rituali in cui si può intervenire con armonie semplici;
° lo strumentale feriale è riferito al limitato numero di strumenti e all’assenza di preludi e interludi strumentali di una certa consistenza.
Mi piace qui ricordare che una delle cose che mi sono sempre rimaste scolpite nella mente (e hanno inciso sulla mia identità sonoro-musicale-liturgica) è senz’altro la diversificazione dei segni sonori, per diversificare Tempi e Feste, così come era agita nella mia Parrocchia S. Andrea a Milano (eravamo negli anni del Parroco Bernareggi, fratello del liturgista Mons. Adriano!). Un piccolo esempio: in Quaresima, se proprio si dovevano accompagnare i canti, lo si faceva con l’armonium. L’organo, poderoso anche da vedersi (anzi, oggi è, secondo me, anche troppo invasivo), era un segno dichiaratamente “festivo”. Per cui a Pasqua, quando tornava con il suo suono esuberante, faceva notare quanto era stato “feriale” il suono dimesso dell’armonium (un piccolo “Tubi”).
e) Gli strumenti musicali: caratteristiche specifiche, volumi e timbri nel solo e nell’insieme
“Ogni tentativo di teorizzare, e praticare, un non so quale cervellotico uso degli strumenti, che risulterebbe più <pio>, o <religioso>, o <sacro>, va ascritto fra le fantasie malsane”. E’ una simpatica asserzione di E. Costa (“Celebrare cantando”, Ed. S. Paolo, Cinisello Balsamo, Milano 1994) che faccio mia. E’ invece importante il “saperci fare” e la conoscenza delle caratteristiche e della significatività sonoro-timbrica degli strumenti (nel solo o/e nell’insieme), per saper impegare quelli giusti, nel modo giusto, per un determinato rito.
Cito brevissimamente alcune particolarità:
° il tanto glorificato organo a canne può ammazzare il canto invece di sostenerlo (ricorderò sempre un forsennato organista francese che impiegava ripieni e ance per... accompagnare un’assemblea di poche persone cantanti...; forse voleva stimolare le tante “mute”?!?); può viceversa rendersi insufficiente e dannoso se i registri scelti non sono adatti per accompagnare il canto (ad esempio “unda maris” e “voce celeste”); un flauto amplificato può sostenere da solo la melodia cantata da una grande assemblea, mentre tre o quattro chitarre che facciano soltanto gli accordi, sono in grado di accompagnare esclusivamente un piccolo gruppo, il quale, però, deve essere a conoscenza perfetta della melodia; va aggiunto comunque che molto dipende dall’ambiente e dal tipo di strumento: una chitarra molto sonora o addiruttura amplificata, in un ambiente che risuoni bene, è sufficente a sostenere un gruppo anche di consistenza notevole;
° rimanendo alla chitarra: gli accordi sgranati e rari sulle parole “portanti” durante la parte cantillatoria di un salmo responsoriale vanno benissimo: in primo piano la PAROLA; se invece lo stesso testo viene accompagnato obbligandolo in un ritmo scandito dallo strumento in modo precostituito, non basato sul ritmo-parola, evidentemente si altera il rito, perché non è più la PAROLA ad essere in primo piano, bensì il ritmo imposto dalla chitarra;
° sempre a proposito di cantillazione solistica si tenga presente che è preferibile accompagnarla con uno strumento dal suono toccato e subito rilasciato che non da uno strumento a lunga tenuta di suono; quest’ultimo infatti è meno adatto a lasciare alla parola la preminenza; unica buona soluzione è dare l’intonazione sufficientemente sentita ma poi accompagnare con un deciso pianissimo;
f) Preludi, interludi, postludi
La dote principale di uno strumentista liturgico è senza’ altro quella di saper improvvisare in base al rito che si celebra. E’ ovvio che per fare ciò occorre una completa preparazione basata su seri studi liturgico-musicali. Ricordare bene che non basta il “grande musicista” ; costui finirà sempre per andare “per i fatti suoi”. Talvolta servirà anche tenere pronto un apposito repertorio già scritto (soprattutto per preludi e postludi) che però sia stato già composto sui temi del canto usato nella tale o tal’altra liturgia, come canto d’inizio o di “post-communio”.
g) Impasti vocali-strumentali
Devono essere studiati sempre in riferimento alla realtà celebrativa; quindi per “quella festività”, per “quel” momento rituale, per “quell’ Assemblea”, per “quelle” sensibilità, in riferimento a “quelle voci”, unisone o polifoniche, poche o tante, di sole voci medio-acute (donne e bambini) o di soli maschi, con alternanza o meno e via dicendo. La riflessione e l’attenzione di cui s’è fin’ora parlato, qui devono essere più che mai messe in opera.
Alcune puntualizzazioni generali.
C’è chi parla di “abusi” che vanno stroncati; ma gli abusi non si combattono con dei contro-abusi! Dice ancora Mons. Weakland: “Purtroppo con l’infelice decisione di Papa Giovanni Paolo II - presa, ne sono sicuro, con molta angoscia - di accordare, nel 1984, l’indulto che consentiva al rito tridentino di riprendere vigore”, i fautori del latino e della salvaguardia del repertorio cosiddetto <sacro> hanno ripreso la loro battaglia, “fino a pretendere di rovesciare le riforme liturgiche del Concilio”. Da che parte sta la verità: dalla parte dell’unione nell’unico rito latino riformato o dalla parte della divisione in due riti? C’è già molto spazio per una giusta creatività e questa è più che sufficiente per aiutare ogni comunità a celebrare i Santi Misteri secondo la propria tipicità comunitaria. Dico comunitaria perché è inconcepibile una Liturgia che non sia così. L’azione liturgica non è mai unicamente opera del singolo, ma sempre e innanzitutto un gesto di Cristo Sacerdote e della sua Chiesa. Nell’Istruzione sulla Liturgia delle Ore si legge che pur celebrando le Ore in privato, si deve cogliere questo aspetto (IGLH, 32), pur tenendo presente che la celebrazione in senso pieno non si avverte effettivamente se non c’è un’assemblea.
Inoltre è urgente dirsi che né la “Sacrosantum Concilium”, né la “Musicam sacram” sono <l’ultima parola > conciliare sulla musica per la liturgia; infatti sono emerse nuove e sempre più dettagliate norme e disposizioni particolari, che si trovano nei libri liturgici rinnovati e nei “Principi e norme” per il loro uso. Ciò vale in modo particolare per le premesse al Messale (IGMR, 1983) e alla Liturgia delle Ore (IGLH, 1969), di cui abbiamo già parlato.
* Va poi onestamente riconosciuto che nella datata Costituzione “Sacrosanctum Concilium” (4 Dic. 1963: un abisso per il nostro tempo vertiginoso) c’è comunque già almeno una ricerca di equilibrio tra la dottrina tradizionale ribadita (latino/gregoriano/polifonia) e un nuovo sentire liturgico, più aperto al fatto celebrativo in sé, un po’ meno centrato sulla musica. Si sottolinei molto bene la famosa e nuova frase in cui si dice che la musica per la liturgia “sarà tanto più santa, quanto più strettamente unita all’azione liturgica”. Quanto poi al gregoriano viene richiesta la “parità di condizioni” perché venga preferito in una celebrazione. Ma questa frasina: “ceteris paribus”, cioè: “a parità di condizioni”, viene quasi totalmente ignorata. Questa io la chiamo “manipolazione dei documenti”. Semmai, di un documento, si fa una circostanziata critica. Manipolarlo è operazione indegna.
* A questo punto è bene chiederci: in che misura il repertorio del passato è oggi con facilità accessibile al Popolo di Dio, più direttamente coinvolto nei riti rinnovati? C’è il rischio reale di un ri-uso poco intelligente, non contestualizzato, al di fuori di una programmazione che tenga presente festa / riti / persone / ruoli. Infatti, ad esempio, si stanno purtroppo continuamente creando cori, più o meno parrocchiali, che si riappropriano di tutto lo spazio cantato della celebrazione. Si torna ad un “far musica per la musica”, che, il più delle volte, è non soltanto ben distante dall’adesione ai riti, ma addirittura anche dall’arte per l’arte! Ci fosse almeno quella!
Come conclusione mi piace citare una frase del grande liturgista benedettino, Mons. Magrassi, che fu vescovo di Bari fino a qualche anno fa: “Purtroppo si son cambiati i testi ma non le teste”. Certo, la conversione del cuore è la più difficile; più facile rimanere nel proprio trantràn, accampando varie ragioni puramente cervellotiche, senza andare alla radice della questione che è la celebrazione del Mistero Pasquale di Cristo.
Ecco un breve campionario: “si è sempre fatto così”; “nella mia chiesa e con la mia gente so io come fare: i liturgisti hanno il buontempo”; “bisogna far cantare l’Assemblea, quindi il Coro è inutile”; “per la partecipazione attiva basta l’ascolto, quindi basta il Coro”; “una volta si poteva suonare tanto durante la Messa, adesso cosa ci sta a fare l’organista se non suona i suoi pezzi?”; “le chitarre hanno profanato le chiese, perciò io non vado più in chiesa”. E potremmo continuare. Purtroppo, se badate bene, in tutte queste frasi manca il sostegno della “radice”, mancano le “teste pensanti” che, “con-vertite”, sappiano mettere il “Cristo vivente” al centro. È chiaro dunque che non saranno le soluzioni musicali tecniche a risolvere primariamente i nostri problemi liturgico-musicali, bensì una faticosa ricerca catechetico-liturgica. I nostri Vescovi, qualche anno fa, avevano così titolato un loro documento: “Cantiamo la nostra fede”. Eh già, in ultima analisi non si tratta di arte, ma proprio di fede.
Cremona, Centro Pastorale Diocesano "Maria Sedes Sapientiae", sabato 2 febbraio 2002
IGMR = Instructio Generalis Missalis Romani
IGLH = Instructio Generalis Liturgiae Horarum
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[*] Profilo biografico di Padre Giovanni Maria Rossi (1929-2004), a cura di Liliana Castagneti
Padre Giovanni Maria Rossi nasce a Milano il 1 Settembre 1929. Il 5 Ottobre 1942 entra nel Seminario di Villa Visconta. Durante la quinta gennasio (1946-1947), per un gioco che egli stesso definisce cretino, perde l'occhio sinistro. Nel 1947 è Novizio a San Giuliano (VR) dove il 17 Ottobre dell'anno successivo emette la Professione Temporanea. Terminato il liceo, nel 1952 entra a Mottinello per gli studi teologici. Professo solenne il 21 Settembre 1952, il 17 Giugno 1956 è ordinato Sacerdote. Si può dire che il suo ministero camilliano è un continuo e mirabile intreccio tra assistenza ai malati, apprendimento e insegnamento della liturgia e della musica, lo splendido valore aggiunto della sua vocazione. Così nel 1956-1958 lo troviamo contemporaneamente Cappellano a Chievo (VR), insegnante di Musica ai Chierici di San Giuliano e studente al Conservatorio di Bolzano. Nel 1958-1959 è aiuto nel Santuario San Camillo di Milano, direttore del Coro San Camillo, studente al Pontificio Istituto Ambrosiano di Musica Sacra di Milano e al Conservatorio di Bolzano. Il 12 Ottobre 1959 è nominato Delegato Nazionale dei Camilliani per la Musica Sacra. Insegnante di Liturgia-Canto-Musica ai liceali di San Giuliano e ai teologi di Mottinello dal 1960 al 1965, nel 1962 si diploma in Organo e Composizione Organistica presso il Conservatorio Statale di Bolzano. Nel 1963 si merita magna cum laude il titolo di Magister al Pontificio Istituto Ambrosiano di Musica Sacra di Milano. Negli anni che seguono Padre Giovanni si dedica successivamente all'animazione liturgico-musicale nello Studio Teologico S. Zeno (VR), a Mottinello, a San Giuliano, nella Parrocchia di Padova, ecc. e alla Musicoterapica per psicotici a Maso S. Pietro (TR). Per circa quindici anni insegna Voce, Persona, Comunicazione ad Assisi/PCC. Dal 1993 al 2003 è docente di Vocalità e Coralità presso il CO.PER.LI.M. della CEI a Frascati. Nel 1998 è di Comunità a Bologna, organista e direttore del Coro S. Michele dell'Ospedale Rizzoli. Ma dall'inizio dello stesso anno cominciano a manifestarsi i segni preoccupanti della malattia. Dopo un periodo di ricorrenti terapie in S. Pio X, il 10 novembre 2003 viene di Comunità a Villa Visconta sperando in una rapida ripresa favorita dal verde e dalla quiete della Brianza. Speranza vana. La sua permanenza alla Visconta è interrotta da ricoveri sempre più frequenti e lunghi presso la Casa di Cura S. Pio XIl. Il 7 Febbraio 2004, provato dalla sofferenza affrontata con serenità e rassegnazione, ritorna alla Casa del Padre. Le esequie sono state celebrate il il 9 Febbraio 2004 alle ore 10.00 nel Santuario di San Camillo (MI). La salma di padre Giovanni Maria Rossi riposa nel Camposanto di Chiaravalle (MI). Una vita intensa, spesa bene. Naturalmente dotato di estro musicale, padre Giovanni non ha nascosto questo carisma: lo ha coltivato con passione e perseveranza, non sempre sorretto da comprensione, mettendolo a servizio della Chiesa con semplicità e come espressione della vita di fede che sentiva viva e vibrante. Nelle sue esibizioni artistiche ci metteva l'anima, le sue dita erano sì guidate dalla tecnica ma soprattutto dalla fantasia e dalla poesia, grande dono della natura. Padre Giovanni era un ottimo compositore conosciuto ed apprezzato dai competenti e dagli stessi molto ricercato: i suoi canti d accompagnamento per le celebrazioni liturgiche sono sobri, festosi e coinvolgenti. Aveva trovato tempo e modo di dedicarsi anche alla Musicoterapica con risultati sorprendenti. Era convinto che la musica è un balsamo soave che scende nel profondo dell anima e lenisce piaghe e ferite. Non disdegnava neppure animare feste e ricorrenze di vario tipo: le sue esibizioni erano garanzia di splendida riuscita. Ci piace ricordarlo così: positivo, elemento di unità, disponibile, sereno, capace di dire con la sua arte a ciascuno "tu sei importante per me, ti voglio bene". Ciao padre Giovanni, che la terra ti sia lieve.
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Giovanni Maria Rossi, Scritti scelti, Rotas, Barletta 2005
(pubblicazione a cura della Arcidiocesi Trani-Barletta-Bisceglie e Nazareth e del Centro di Documentazione sulla Musica per la Liturgia “Giovanni Maria Rossi”):
INDICE
Prefazione
a cura di Eugenio Costa SJ
Padre Giovanni Maria Rossi / Camilliano
a cura di Mons. Savino Giannotti, Vicario Generale dell'arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie
Ai lettori
a cura di don Mimmo De Toma, parroco di S. Maria del Pozzo in Trani
Giovanni Maria Rossi [profilo biografico a cura del Centro di Documentazione sulla Musica per la Liturgia “Giovanni Maria Rossi”]
La voce di un protagonista / Intervista a Giovanni Maria Rossi
a cura di Felice Rainoldi
Giovanni Maria Rossi: un musicista liturgico per Trani
a cura di Vincenzo Lavarra
Musica e sacerozio, una convergenza naturale
a cura di Michel Veuthey
Ministero e ministri del canto. Preparazione e compiti
di Giovanni Maria Rossi
Quale ascolto, per quale suono/parola, con quale suono/musica, con quale coinvolgimento, con quali risultati
di Giovanni Maria Rossi
Improvvisazione strumentale nella liturgia
di Giovanni Maria Rossi
Suono-musica nel metodo umanistico di san Camillo De Lellis (1550-1614)
di Giovanni Maria Rossi
La metamorfosi possibile
di Giovanni Maria Rossi
Lettera del 29 gennaio 2004 a Suor Noemi del Monastero di Carpineto Romano
di Giovanni Maria Rossi
Il testamento di P. Giovanni
scritto a don Guido Pasini di Parma il 16 maggio 2000
"Vergine Madre", una storia
di Giovanni Maria Rossi
*** QUI IN CALCE UNA VERSIONE IN FORMATO “PDF” STAMPABILE DEL PRESENTE ARTICOLO
È A DISPOSIZIONE ESCLUSIVAMENTE DEGLI UTENTI ISCRITTI AL PRESENTE SITO ***