In chiesa torni la bellezza della musica e del canto

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Autore: Luca Della Libera

Giovanni Paolo II ha esortato i cattolici a liberare il culto da sciatterie e sbavature di stile. Gli esperti gli danno ragione.
IL PAPA ha oggi esortato i fedeli cattolici a ridare un posto di primo piano alla musica e al canto durante la messa, ma non— ha ammonito — in modo sciatto e trasandato. «Bisogna pregare Dio — ha detto ieri mattina durante l'udienza generale in Vaticano — non solo con formule teologicamente esatte, ma anche in modo bello e dignitoso». «A questo proposito — ha spiegato — la comunità cristiana deve fare un esame di coscienza perché ritorni sempre più nella liturgia la bellezza della musica e del canto. Occorre purificare— ha però avvertito — il culto da sbavature di stile, da forme trasandate di espressione, da musiche e testi sciatti e poco consoni all'atto che si celebra».

Descrivere una mappa dell'universo musicale cattolico non è facile. La situazione è molto complessa: certo è che in molte chiese la qualità dei repertori e delle esecuzioni musicali lascia spesso a desiderare. In molti casi l'esigenza di coinvolgere l'assemblea al fatto musicale ha portato a banalizzarne gli esiti, con canzoni che imitano modelli di musica di consumo. Una cosa sembra chiara: non ci può essere musica consona alla liturgia senza una profonda partecipazione al rito.

«E' una situazione in movimento», sostiene don Antonio Parisi, consulente dell'ufficio liturgico della Cei per la musica. «In Italia abbiamo cinquanta scuole diocesane che preparano animatori musicali con corsi di perfezionamento molto validi: è un lavoro silenzioso, ma che sta dando i suoi frutti. La riforma dei Conservatori, poi, permetterà di attivare delle classi di musica per la liturgia».
«Le parole del Papa rilevano giustamente il valore spirituale della musica all'interno della liturgia», sostiene monsignor Marco Frisina, direttore dell'ufficio liturgico del Vicariato di Roma e maestro di cappella a San Giovanni in Laterano. «A Dio si deve offrire sempre il meglio: la situazione presenta delle sbavature, perché non c'è stata molta attenzione al valore interiore della musica. Noi stiamo lavorando nella nostra Diocesi su due fronti: da un lato l'educazione e la conoscenza della grande tradizione sacra, con concerti che si svolgono ogni domenica nelle varie chiese di Roma; dall'altro siamo impegnati, nella dimensione liturgica (ed io lo sono in prima persona in qualità di compositore) in una necessaria mediazione tra la nostra secolare tradizione musicale e la sensibilità di oggi. C'è nel popolo di Dio un grande desiderio del sacro, ma contemporaneamente c’è una presenza massiccia di musiche di consumo, che inseguono il consenso facile. Il fine del canto è la preghiera e quindi il canto dev'essere in consonanza con la grandezza dell'atto celebrativo. Molti compositori vedono la liturgia come qualcosa che mortifica il loro linguaggio, e vivono in questo equivoco. In realtà nella liturgia non c'è posto né per la musica banale né per quella intellettuale. La musica sacra dev'essere condivisa da una comunità, deve avere una portata universale. In questo senso il canto gregoriano è normativo. Non tanto perché dobbiamo imitarlo magari banalizzandolo: è normativo nel senso che rappresenta un modello, perché nella sua apparente semplicità mette il testo al primo posto».

Il canto gregoriano: tesoro enorme e poco conosciuto. Le cose, però si muovono. Padre Maurizio Verde, gregorianista e direttore di coro, è il responsabile della formazione musicale dei seminari dei frati minori dei monasteri delle clarisse in Umbria. «Nelle posizioni ufficiali c'è sempre molta chiarezza: il fatto è che ciò che resta nella cultura del popolo è quello che è celebrato, che è vissuto dal popolo di Dio nella realtà della liturgia. Io non ho posizioni di archeologia musicale, per cui bisogna eseguire solo il canto gregoriano. Non dobbiamo precludere strade nuove, che parlino il linguaggio della contemporaneità. Il canto gregoriano, in ogni caso, riveste una funzione fondamentale nella pedagogia musicale, in quanto aderisce al sentire cattolico della Chiesa e alla parola di Dio. Vedo intorno a questo repertorio un interesse costante, anche se c'è il rischio di un'appropriazione superficiale, che rincorre mode tipo new-age».
«Le parole del Papa mi hanno riempito di gioia», dice Gianluigi Gelmetti, direttore musicale del Teatro dell'Opera di Roma. «La musica ha un potere vivificante enorme, per cui è impensabile relegarla a canzoni tipo “Zecchino d'oro". Sono perplesso anche sulla prassi di cantare il canto gregoriano con traduzione italiana: in questo modo si perde l'enorme fascino e il potere espressivo del testo. I compositori vanno spinti a trovare delle soluzioni consone alla sensibilità di oggi. Da parte mia, posso assicurare che dal prossimo anno il Teatro dell'Opera sarà impegnato con vari concerti dedicati alla musica sacra: mi sembra giusto farlo, in una città dalla fortissima tradizione musicale come Roma».

Come si pongono i compositori nei confronti della musica sacra, ed in particolare nei confronti di quella liturgica? Matteo D'Amico è tra quegli artisti che lo hanno fatto in modo sistematico. Proprio pochi giorni fa a Roma è stato eseguito un suo Stabat mater nel quale il testo latino è stato tradotto da Vincenzo Consolo, che ha aggiunto Lo spasimo di Palermo, dedicato alla tragica morte del giudice Borsellino. «Trovo che le parole del Papa rappresentino uno spiraglio importante. Negli ultimi vent'anni noto un progressivo interesse da parte dei compositori nei confronti del sacro. La dicotomia tra musica sacra e musica funzionale alla liturgia c'è sempre stata, non è solo di oggi. Negli anni Cinquanta la musica sacra è stata spesso connotata da austerità e severità. A me piace considerare l'espressione e i testi in modo intenso, vivace, colorito e guardo sempre all'esempio di Petrassi, nel solco della grande tradizione musicale romana».

Note:

Articolo tratta da: Il Messaggero
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