In relazione al Convegno
PROCEDURE PER IL RESTAURO DEGLI ORGANI A CANNE
Esperienze passate e prospettive future dopo la pubblicazione dell'albo restauratori
a cura di
Associazione Italiana Organari
Bologna, sabato 26 ottobre 2019
Per una difesa della naturale evoluzione degli organi musicali
Due interventi di Francesco Finotti e Fausto Caporali
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Francesco Finotti
La conservazione delle cosiddette “stratificazioni“ nel restauro degli organi musicali: un problema nel problema.
La rivalutazione del patrimonio strumentale rappresentato dagli organi musicali in Italia è oramai una realtà incontrovertibile, i cui fondamenti sono oggetto di continui adattamenti.
Tra i meriti indiscussi della cosiddetta Orgelbewegung italiana v’è senza dubbio quello di aver creato i presupposti della presa di coscienza del valore e dell’importanza del mantenimento di beni tramandati attraverso le varie epoche. Il patrimonio di strumenti così ripristinati (intendendo con tale espressione tanto quelli restaurati secondo criteri meramente “conservativi” quanto quelli approntati secondo processi di “riqualificazione” più o meno importanti) è oggi di tutto rispetto; per certi versi, tale da aver messo in secondo piano l’indispensabile e altrettanto nobile arte della nuova costruzione, che si trova oggi a vivere un momento di grave difficoltà stanti la penuria di risorse economiche e la mancanza di idee.
È opportuno mantenere un riferimento preciso, utile per ogni disamina, individuabile nell’Adunanza Organistica Italiana di Trento del 1930, all’interno della quale trovarono ospitalità degli ideali che avevano preso le mosse nei sessant’anni che la precedettero. Fu, l’Adunanza, il vero momento di consapevolezza di processi e convergenze inevitabili, attuati negli anni precedenti grazie all’impegno e alla passione di artisti di grande spessore, che non lesinarono le loro risorse intellettuali, pur di far progredire quella realtà rappresentata dal nostro strumento.
Fu, l’Adunanza, con ogni probabilità anche l’inizio di una diversa concezione quanto a una possibile vita “laica” dell’organo, in Italia visto sino ad allora come strumento d’uso esclusivamente chiesastico-liturgico. Il momento del “concerto” trovava la sua giustificazione come complemento indispensabile della vita liturgica, realizzando così un modello di acculturamento generale certamente di grande valore che ha potuto sopravvivere sino ai nostri giorni. Ora, sarebbe troppo lungo esporre qui le ragioni di quanto appena evocato, ragioni che potrebbero magari essere oggetto di un futuro studio particolareggiato, al quale demandare ulteriori approfondimenti.
In questo processo inarrestabile di mutamenti e adattamenti, la parte “strumentale” rappresentata dal manufatto ha seguito fedelmente quanto si andava manifestando, accogliendo al suo interno testimonianze che spesso hanno rappresentato l’unica occasione di una nuova vitalità, senza la quale detti manufatti non avrebbero potuto sopravvivere. La necessità di perfezionare quanto ricevuto dalle generazioni precedenti - rifuggendo dunque la tentazione del semplice abbandono - ha fatto sì che i molti adattamenti si prestassero di volta in volta a confermare quell’evoluzione di “pensiero” e “linguaggio” alla quale i grandi artisti dell’epoca non potevano sottrarsi. Di tale processo, certo avvenuto non dall’oggi al domani, rimangono tracce che, in quanto tali, non possono essere ignorate ma, al contrario, devono poter godere a buon diritto dei principi di tutela dei quali tanto si parla in questa epoca e ritenuti come irrinunciabili, se vogliamo comprendere pienamente il significato del “prima” e “dopo” Adunanza, oltre che addentrarci meglio all’interno dei meandri della produzione musicale organistica di quegli anni.
Le motivazioni principali della cosiddetta “riforma” che portarono all’Adunanza del 1930 sono da trovarsi nella necessità di un ritorno all’essenzialità, alla semplicità di quanto praticato prima della temperie operistica del XIX secolo che tanto ha condizionato la produzione di strumenti dell’epoca in Italia, una volta concretizzatosi il modello “serassiano” di strumento/orchestra.
Partendo dall’Adunanza, sopraggiunse di lì a poco una “controriforma” le cui motivazioni si possono così sintetizzare:
- superamento del modello a tastiera unica e del conseguente impiego di registri spezzati, sino a quel momento imperante;
- pedaliera ridotta con prima ottava “scavezza” mancante di semitoni, con tasti troppo corti, di grave ostacolo all’esecuzione delle pagine importanti della letteratura organistica;
- fonica perennemente squilibrata tra “bassi” e “soprani”;
- “Ripieno” sovrastante su tutti gli altri registri, per importanza e sonorità pungenti.
È proprio su quest’ultimo elemento (il Ripieno) che la partita inizia a giocarsi attraverso adattamenti e novità che, in ogni caso, in Italia hanno avuto il risultato non trascurabile di evitare la proliferazione di modelli neo-barocchi, diversamente da quanto avvenuto in Germania nello stesso periodo, grazie alla lungimiranza di alcuni tra i protagonisti, tra i quali meritano un posto di primo piano Renato Lunelli (artefice del rifacimento dell’organo di Santa Maria Maggiore a Trento, realizzato da Vincenzo Mascioni nel 1930), Raffaele Manari (artefice del grande organo nella sala del Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma, anch’esso opera di Vincenzo Mascioni del 1933), oltre ai musicisti ad essi collegati più o meno direttamente.
L’arte dell’intonazione conosceva mutamenti tali da far perdere i riferimenti con l’organaria “classica”, optando per timbri e amalgami di tutt’altro genere, cosiddetti “orchestrali”, in questo similmente a quanto avveniva oltralpe, senza peraltro eguagliarne i risultati. Nel dettaglio di questo capitolo, non sono pochi i fraintendimenti che attribuiscono ad alcune figure di rilievo “colpe” inesistenti di aver promosso una standardizzazione costruttiva: se si volesse indagare più approfonditamente, si scoprirebbero al riguardo non poche verità di ben altro genere, riabilitandone in definitiva l’immagine così fortemente compromessa.
L’avvento dell’elettricità e l’introduzione di nuove tipologie di somieri portavano a una diversa attuazione del legame tra esecutore e sorgente sonora, a scapito della precisione di governo tecnico dello strumento ottenuto da sempre attraverso il fraseggio e l’articolazione.
Ora, tutte queste manifestazioni - o, meglio, trasformazioni - rappresentano esse stesse un patrimonio che deve poter essere protetto da fraintendimenti, alterazioni improprie, pena la non comprensione sia dell’evoluzione della scrittura musicale che delle condizioni nelle quali in Italia si è giunti agli inizi degli anni 1960-1990 nel campo del recupero delle modalità costruttive dell’organo più classiche, integrate da conquiste e perfezionamenti d’uso corrente che sono oramai patrimonio indiscusso dell’arte della nuova costruzione. Se vogliamo avere consapevolezza di quanto sia costato questo cammino di trasformazione e adattamento, distinguendo tra le varie tipologie di apporti per qualità realizzativa, di quanto tutto ciò significhi come riflesso nell’espressione musicale che lo giustifica, non possiamo evitare di tutelarlo, esattamente come si vogliono tutelare gli strumenti antichi di pregio: “stratificazioni” operate dal tempo all’interno dell’arte della costruzione degli organi da un lato, dell’arte dei suoni e della letteratura musicale dall’altro. La dinamica che si stabilisce tra queste manifestazioni è essa stessa il valore di conoscenza più nobile ed elevato che possiamo sperare di mantenere: merita l’attenzione e il rispetto più rigorosi, allo scopo di non disperderlo e di vanificarne gli effetti.
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Fausto Caporali
L’opera di riforma fra ‘800 e ‘900: ragioni per una ripresa critica
Se si dovesse tentare di tracciare l’orizzonte attuale della prassi organistica/organaria italiana potremmo limitarci a individuare la sola prospettiva storicistica come presenza preponderante ed invasiva. Da un lato, abbiamo l’esecuzione di musica delle epoche passate come sostanza costitutiva del musicista; dall’altro, la generalizzata opera di conservazione del patrimonio organologico consegnatoci dalla storia.
Possiamo considerare marginali i contributi creativi attuali, così come ormai è episodica la costruzione di nuovi strumenti. Questo stato della cultura si è imposto in Italia a partire dagli anni ‘60 come una importazione della Orgelbewegung mitteleuropea e, più in generale, come figliatura tardiva dell’idealismo e della sua idealizzazione della Storia, considerata come attualizzazione dello Spirito, la cui indagine conduce alla comprensione dei fatti passati/presenti e al loro costituirsi come tracciatura di una civiltà. Partendo dalle fonti storiche, si deve superare ogni forma di emotività nei confronti dell’oggetto studiato e presentarlo in forma di conoscenza. In questo modo la storia diviene visione logica della realtà in un periodo del suo essersi attuata.
Se guardiamo alla fioritura della storiografia del secolo precedente e, restringendo ulteriormente, allo storicismo del nostro campo di riferimento, riusciamo a comprendere l’afflato della ricostruzione storica, intesa da un lato come “conoscenza”, dall’altro come riconoscimento di un’identità più o meno lontana nel tempo.
Recepita nelle disposizioni di legge e costituzionalmente sancita, la tutela dei beni artistici è un dato acquisito ad ogni livello, sicché possiamo oggi tracciare una storia di un determinato settore storico o artistico con generale precisione, conservando programmaticamente i reperti delle epoche trascorse. Senonché, i rischi sono due: il primo, l’assolutizzare il dato storico come fine a sé stesso prescindendo dal sentire presente, e il secondo il demonizzare ciò che sembrerebbe aver leso l’oggetto ricostruito attraverso adattamenti e riusi successivi. Da questo punto di vista possiamo affermare che, fino alla generazione dei conservatori/esecutori, la storia ha proceduto soprattutto attraverso adattamenti dell’esistente. Sono quelle che chiamiamo stratificazioni, che troviamo nella maggior parte dei manufatti giunti fino a noi.
Quelle operazioni di adattamento erano dettate da idealità condivise, a cui si giungeva tramite maturazione di differenze creative; il dialogo con il passato sottintendeva un’appropriazione dentro un quadro di realizzazione del sé imprescindibile. Questo generava arte nuova, rendendo vivo e vitale il passato dentro una fruizione estetica inedita.
Nel momento in cui, secondo l’attuale filosofia del restauro, si prescinde totalmente dal presente e non si ha alcuna poetica se non il “conoscere” e il “ripristino” oggettivo, perché è il risultato storico di un momento precedente/successivo visto e bloccato nella sua logicità, ecco che si arriva all’ipotetico “stato originario”, alla cristallizzazione di un pensiero/atto storico. Dico assenza di idealità perché non è pensiero che crea arte nuova, ma solo rifacimento/riconoscimento/ripercorrimento: questo lo si vede immediatamente nell’azione di restauro e, conseguentemente, nell’esecuzione di musiche del passato.
È evidente la posizione culturale insita in questa prospettiva, che decide una superiorità in nome della storia ideale senza fare i conti con una ricezione estetica possibile. Le conseguenze sul piano pratico sono che pochi decidono “chi”, “che cosa”, “come” restaurare, da una parte riportando un evento/manufatto a uno stato avulso dal presente e sottintendendo, dall’altra, una condivisione estetica che in realtà troppo spesso non avviene, perché la distanza con il presente è non di rado abissale e le estetiche non risorgono per decisione di pochi. La convinzione che il passato aiuti alla comprensione del presente vale solo per l’epoca che ci precede, quella che si confronta con noi in modo dialettico e risulta rapportabile all’oggi, non quella che, lontana nel tempo, non corrisponde a nulla di noi. La prima possiamo sentirla viva in noi, mentre la seconda possiamo solo indagarla senza coinvolgimenti emotivi. L’occidente non ha mai ripetuto un suo stadio evolutivo, ma ha proceduto come Storia che ha sedimentato e costruito sul passato per rivolgersi verso un fine sperato in un futuro: le operazioni di ritorno vere sono state quelle che hanno guardato in avanti nella costruzione di un mondo nuovo.
Da questa impostazione derivano alcuni corollari che interessano qui. Il periodo organario precedente l’attuale, quello che partito dagli ultimi decenni del secolo XIX è arrivato fino oltre la metà del secolo precedente, è stato visto “contro” la storia precedente e, di conseguenza, la sua opera di intervento sul patrimonio organario attuata all’epoca è stata considerata come distruttiva. Una considerazione viene da sé: anche questo periodo ormai va storicizzato e visto nella sua fisionomia originale, non solo perché «la storia è giustificatrice» - e dunque le idee e le realizzazioni hanno tutto il diritto di essere rispettate nella loro manifestazione storica -, ma perché il contributo dato alla storia del pensiero offre tuttora spunti ineliminabili, entrati nella cultura organistica/organaria che ci riguarda da vicino.
Ci riferiamo a qualche principio relativo naturalmente al nostro ristretto ambito: l’internazionalizzazione della visuale artistica sia sul piano musicale che organologico, l’aggiornamento di tecniche a standard costruttivi/esecutivi non più provinciali, l’ammodernamento di linguaggi comunicativi. È proprio il contrasto tra ripristino del dato storico e inserimento del musicista e del suo repertorio in ambito europeo a confinare la chiusura delle operazioni di ripristino in un ambito localistico, fatto già a suo tempo avvenuto e denunciato. È proprio il riportare allo stato originario strumenti e “pratiche” che rinchiude le prospettive dentro un passato che si rivela ancora per quello che era: musicisti per la gran parte dilettanti, arrangiatori più o meno inventivi, compositori spesso inconsistenti, musiche fredde e in definitiva enigmatiche o, per converso, superficialmente edonistiche, con un patrimonio organario di riferimento chiuso nel mondo dell’antico e del
melodramma.
Quanto evidenziato avviene anche - e assai spesso - a discapito delle esigenze dell’organista, la cui formazione (fatta su programmi di derivazione idealistica anch’essa) obbedisce ancora ai canoni individuati precedentemente: conseguimento di tecniche aggiornate, internazionalizzazione di repertori e pratiche, avveduta scelta di atteggiamenti musicali, confronti virtuosistici moderni.
L’opera di riforma, come veniva chiamata, si è mossa dentro un orizzonte ideale, come tante volte successo nel passato che poteva tradurre in azione principi maturati all’interno di un dibattito assai vivo e sentito (per quanto in un’ottica ormai tutta interna alla Chiesa).
Anche qui possiamo considerare come acquisiti alcuni principi: consapevolezza di più meditati atteggiamenti artistici, dialogo con musiche e musicisti di livello superiore, esplicazione della propria opera in relazione a una spiritualità non superficiale, riscoperta del repertorio passato come suggerimento di comportamenti espressivi e compositivi validi nell’oggi.
Quello che si vorrebbe è innanzitutto il riconoscimento della legittimità delle esigenze sorte in relazione a istanze culturali e liturgiche, per nulla scomparse e tuttora presenti nella cultura odierna; purtroppo, è da registrare che in nome di una scientificità asettica e autoreferente si è spesso travalicato il senso liturgico, talvolta dichiaratamente contro Chiesa e organisti, quasi vi fossero colpe da qualche parte o che la Storia potesse essere corretta a posteriori: il risultato è invece che la cultura storicistica fine a sé stessa non è adattabile alle esigenze di oggi, con i fraintendimenti e gli scadimenti che tutti conosciamo, ma che non si risolve con prese di posizioni apodittiche né dall’una né dall’altra parte.
La vera sfida è costruire un linguaggio/progettualità nuovi e condivisi, prendendo atto del presente e non muovendosi in nome di superiorità presunte del passato, tutte da dimostrare e troppo spesso inutilmente cronachistiche. Il nostro retaggio organistico e organario ha vissuto i suoi momenti alti e bassi, ma il restarne prigionieri ne decreta la fine inevitabile.
Musicalmente, si ripristinano strumenti per i quali vi è un repertorio superficiale o privo di sostanza, spesso si impedisce programmaticamente l’esecuzione della grande musica riproponendo pedaliere inutilizzabili, non di rado si operano ricostruzioni che suonano come falsi conclamati, talvolta si tace su ambiti di tutela recenziori che dovrebbero essere rispettati in ogni caso, non infrequentemente si è operato su strumenti che sono restati muti per la liturgia attuale e per la cultura [*]. Forse, potremmo imputare alla generazione dei filologi lo stato stesso in cui versano oggi l’organo e gli organisti, atteso che la loro opera ha condannato a una sommaria damnatio memoriae musicisti autentici (nel senso che hanno creato autenticamente un io storicamente inedito) senza che loro fossero autentici, messo uno iato fra l’ultima scuola organistica italiana e la generazione posteriore ripiegata sull’esecuzione e l’indagine storica, marcato un solco fra pratica concertistica e servizio liturgico quando gli ultimi grandi organisti virtuosi/esecutori/compositori/improvvisatori sono stati capaci dell’uno e dell’altro, utilizzato etichette dispregiative in nome di ricostruzioni posticce (perché comunque basate su ipotesi), ignorato istanze rivolte al futuro, spacciato come dogmi tante estetiche quante sono le epoche passate senza averne una propria.
L’azione dei riformatori non era ingiustificata, addirittura potremmo proporre degli slogan per una facile comunicazione: i registri violeggianti, i timbri diafani? Corrispondevano a una spiritualità; ance non stridenti? Nobiltà di suono; una pedaliera estesa? Cosa per veri musicisti; l’organo in posizione liturgica? Non è più palcoscenico da teatro, e via divertendosi… Le istanze dei musicisti più informati di quella generazione hanno portato alla maturazione delle idee nella nostra generazione, basta rileggere i loro documenti. Ciò dovrebbe portare alla corretta considerazione (anche in nome della sola conoscenza storica, come tutti predicano) di musiche e musicisti di quell’epoca, e al mantenimento di quelle stratificazioni - quando siano di buona qualità organaria - che hanno aperto orizzonti diversi e sono state, in ogni caso, feconde e foriere di soluzioni nuove.
[*] A tal riguardo ci si chiede se non sia ammissibile l’ipotesi della creazione della figura dell’ “Organista conservatore” (uno o più, a seconda delle Diocesi), eventualmente selezionato e ingaggiato da Enti terzi (Sovrintendenze o CEI, per esempio, riservando una quota dei finanziamenti annuali oppure utilizzando finanziamenti non erogati durante l’anno), adottando il principio che l’uso concreto di uno strumento dovrebbe essere parte “integrante” e “paritaria” all’azione di tutela organologica - comprendendovi il fattivo uso nella realtà liturgica -, essendo il “suono-suonato” il vero scopo del restauro e la conservazione notoriamente legata all’uso continuato e completo dei comandi. L’opera di restauro dovrebbe prevedere contestualmente l’aspetto di valorizzazione liturgica e culturale a giustificazione dell’impiego di risorse economiche: capita anche di vedere restauri non entrati nel vivo della musica e rimasti, de facto, assolutamente inutili. Tale ruolo di “Organista-conservatore” sarebbe, inoltre, un modo utile e proficuo di cooptare nell’operazione di conservazione/valorizzazione i nostri preparatissimi giovani organisti.
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