Uno sguardo al passato per un futuro migliore

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Nel secondo anniversario della scomparsa di Luigi Ferdinando Tagliavini (11 luglio 2017), segnaliamo una cronaca del convegno che giusto un anno fa si è tenuto a Pieve di Cadore (BL) in suo ricordo, contenente alcune riflessioni sullo stato della Orgebewegung in Italia, cui segue un approfondito riscontro a firma di Fausto Caporali e commenti di Francesco FinottiGiuseppe Piazza e Stefano Maria Torchio (per commentare pubblicamente, accedere al forum)
 
 
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UNO SGUARDO AL PASSATO PER UN FUTURO MIGLIORE
 
 
L’8 luglio [dello scorso anno] 2018 si è tenuto a Pieve di Cadore un Convegno In ricordo del Maestro Luigi Ferdinando Tagliavini (1929-2017), a cui hanno partecipato un centinaio di persone. Era stato promosso dalla Magnifica Comunità locale e dall’Associazione «Organi Storici in Cadore», con il patrocinio della Società Italiana di Musicologia e dell’Università degli Studi di Padova. L’occasione della celebrazione del primo anniversario della scomparsa di una personalità affermatasi in tutto il mondo per le eccezionali qualità d’interprete della musica cembalo-organistica italiana del Rinascimento e del Barocco, e per la correlata ricerca musicologica, avrebbe forse richiesto che gli organizzatori valutassero meglio lo ‘spessore’ dei relatori.
 
I lavori sono stati guidati da Giuseppe Patuelli, segretario dal 2004 dell’Associazione Italiana Organari, sodalizio che riunisce una parte delle Case, Fabbriche e Botteghe italiane che costruiscono e restaurano gli organi, alcune assai note e con attività secolare. Tale presenza chiarisce anche ai lettori meno avvertiti dove si allocasse la scarsella preposta a contenere i legittimi interessi della categoria; alla quale d’altra parte il defunto aveva sempre rivolto sguardi benevoli, fino ad ospitare nel 1996 nella rivista «L’Organo» da lui diretta il Codice Deontologico e le Norme per il restauro degli organi antichi con cui la citata Associazione Italiana Organari enuclea un complesso di banalità operative ritenendo di potersi affiancare o contrapporre alle indicazioni date dalla Commissione Nazionale per il restauro degli organi nominata qualche anno prima dal Ministero dei Beni Culturali.
 
Dopo i saluti istituzionali di Renzo Bortolot, Presidente della Magnifica Comunità di Cadore, e di Francesco Passadore, Presidente della Società Italiana di Musicologia, la sorella del Maestro Silvia Tagliavini ha illustrato inediti episodi occorsi nei molti viaggi di lavoro o diporto intrapresi con il familiare; quindi ha parlato Sergio Vartolo, noto fino dagli anni Ottanta quale straordinario performer musicale, visto che era in grado d’eguagliare i fasti congressuali del Bettino Craxi rampante facendo salire sul palco gioiosi nani e longilinee ballerine da affiancare ai migliori musicisti ‘barocchi’ d’Europa. Il grande cembalista vocalist ha illustrato, seguendo chi sa perché le intriganti e numerose partizioni dell’Institutio oratoria di Marco Fabio Quintiliano (c. 40 - 96 d. C.), le qualità letterarie e linguistiche che il Tagliavini esprimeva impartendo le sue lezioni; in vero piene di affascinante dottrina, esplicata nelle principali lingue europee e con corredo di episodi connessi alla pagina musicale in esame, a volte alleggerite da calembour o storielle dal profumo di sacrestia.
 
Quindi è toccato ad Antonio Lovato dell’Università di Padova, che ha parlato della tesi di laurea Studi sui testi delle Cantate Sacre di J. S. Bach sostenuta con successo dal Tagliavini nel 1951 presso l’ateneo patavino. Di seguito, Giandomenico Zanderigo Rosolo ha posto in relazione il lessico musicale cadorino con quello usato dal Tagliavini per diretta derivazione materna, nata in Cadore. È poi stata la volta di Umberto Pineschi, il quale avvalendosi di inedite foto, ha mostrato quanto fosse dorato il tempo dei primi anni di Haarlem, da cui sono derivate tutte le Accademie estive e quindi anche quella pistoiese. Si è così potuto vedere come i giovani maestri Anton Heiller, Gustav Leonhardt, Luigi Ferdinando Tagliavini e Marie-Claire Alain trascorreressero settimane felici dentro il cerchio incantato dei sorrisi che rivolgevano loro le più belle organiste del mondo, intrecciati e issati a mo’ di gran pavese nel varo del personale vascello nell’infinito mare delle possibilità.
 
La relazione conclusiva del Convegno era affidata a Domenico Morgante. Il maestro ha detto che sull’interpretazione della musica antica Luigi Ferdinando Tagliavini, dopo aver raccolto l’eredità di Arnold Dolmetsch, contribuì alla rivoluzionaria operazione della cosiddetta Early Music Revival in una con Gustav Leonhardt e Nikolaus Harnoncourt; da cui per la Musica Antica è derivata la «felice situazione odierna». Terminata la lettura del corposo testo, aderente come un guanto alla massima Non dirò nulla che sia mio, lo stesso Morgante ha eseguito su un grande clavicembalo ‘Neupert’ a due manuali, a suo tempo donato da LFT alla Magnifica Comunità, quello che lo stesso esecutore ha definito il «viaggio di un cembalo barocco da Roma a Venezia», un racconto esplicitato con quattro brani di Girolamo Frescobaldi, Bernardo Pasquini, Baldasarre Galuppi, Benedetto Marcello.
 
Chi scrive, per quasi mezzo secolo fraterno amico del defunto, guadagnando l’uscita rifletteva tristemente sulla perdita di tanto Uomo; e constatava di aver trascorso a Pieve di Cadore sotto l’innevato Antelao, detto anche il Re delle Dolomiti, un pomeriggio non meno caldo di quelli passati nella residenza fiorentina, giungendo alla conclusione che forse è proprio vero che nel Bel Paese «non c’è più religione!».
 
Chi si volga a considerare la nascita e gli sviluppi della Orgelbewegung italiana, osserva come le figure più rappresentative siano nate ed abbiano operato al di sopra della cosiddetta Gotenstellung (linea gotica). Come si può constatare, il fatto che i cultori della materia abbiano svolto le loro ricerche al di sopra di quell’ideale linea che taglia la Penisola a circa due terzi della sua lunghezza ha orientato nella direzione sbagliata la bussola della storia della manifattura degli organi e dei cembali italiani; una rotta tuttavia invertibile, visto che non è stato scritto nulla di strutturato, salvo i commenti al Corpus documentario pubblicati in questa rivista.
 
Per una breve disamina dell’interessante questione, che potrebbe ricordare il J’accuse di Zola, si riportano i dati caratteristici del fondatore della disciplina, per solito indentificato in Renato LUNELLI (Trento 1895-1967). Attivo nell’estremo Nord della Penisola, ed anzi nato in una terra ancora parte dell’Impero Austro-Ungarico, si diploma in organo, dal 1920 è titolare in Santa Maria Maggiore, suona alla Filarmonica trentina nel 1929, fa parte della Commissione per la musica sacra, organizza nel 1930 a Trento il Primo congresso organistico italiano. La conoscenza del tedesco gli permette di acquisire i frutti maturati nell’ultimo secolo dalla musicologia germanica.
 
Il secondo riconosciuto padre fondatore è lo studioso e concertista di chiara fama Dr. Prof. Maestro Luigi Ferdinando TAGLIAVINI (Bologna 1929-2017). Compiuti gli studi universitari, completa la formazione musicale a Parigi dove conosce solisti di livello internazionale di cui segue le orme, e conclude l’attività di studioso quale ordinario di musicologia all’università di Friburgo (Svizzera francese). L’impegno profuso in gioventù per il recupero degli antichi organi ottiene un primo risultato nel 1955, con il restauro storico-filologico dell’Antegnati di 16 piedi del 1581 di San Giuseppe a Brescia. La rilevante acquisizione porterà un contributo determinante alla causa della musica antica eseguita su strumenti originali, benché ancora non si comprendesse che i sedici piedi, come quelli di dodici, venivano costruiti per essere suonati all’ottava bassa; pertanto, Tagliavini assicurava i colleghi oltremontani in visita dell’Antegnati 1581 che suonarvi nella tessitura dell’8 piedi era del tutto appropriato, in quanto lo stile polifonico italiano necessitava di tale cristallina chiarezza.
 
Solo nel 1998, in occasione del restauro dell’organo di 16 piedi di Santa Maria in Trastevere per cura dagli allievi del Primo Corso Sperimentale realizzato dall’I.C.R., risulterà evidente come, consentendolo le misure strette dei corpi sonori, la tessitura confacente a tali strumenti fosse quella che fino dagli anni a cavaliere tra Cinque e Seicento è detta nei documenti e nelle fonti all’ottava bassa: durante i concerti d’inaugurazione, il virtuale duello ingaggiato tra Gustav Leonhardt che eseguì l’intero programma un’ottava sotto, e Tagliavini che scelse le corde ‘naturali’, si concluse con la sconfitta del maestro italiano per unanime giudizio dei rappresentanti della musicologia italica, nonché di quella germanica ed anglofona presenti nella basilica romana.
 
Il cahiers de doléances annovera altri Missverstaendnisse, che vengono elencati di seguito. L’aver eretto da un capo all’altro del Nord Italia una sorta di palizzata formata da tutte le tipologie di organi praticate dalla dinastia Antegnati ha impedito agli studiosi di vedere quanto avveniva negli stessi anni nella manifattura degli strumenti a tastiera al di là degli Appennini a Firenze, Lucca, Orvieto, Roma, Napoli, Palermo. L’aver concesso ai maestri ultramontani attivi nel Nord della Penisola un inesistente ruolo nel rinnovamento dei canoni costruttivi, l’idea che l’organo di Lorenzo da Prato del 1475 in San Petronio disponesse di dieci registri, il mito degli Antegnati coltivato nonostante le prove che già il fondatore della dinastia Bartolomeo fosse un maestro mediocre, la glorificazione di una tipologia di strumenti rimasta immutata per un secolo e mezzo, e tuttavia ritenuta rappresentativa dell’organo ‘classico’ italiano, il falso storico di aver creduto che quella tipologia di strumenti potesse dar voce anche alle pagine di Frescobaldi, scritte quando a Roma si praticavano cembali ed organi all’ottava bassa ricchi di registri ‘spezzati’ ad anima e ad ancia di ogni foggia, la concessione della patente di pioniere all’Hermans, quando i rogiti attestano che le supposte novità da lui introdotte nel 1650 erano già conosciute in Italia da circa un secolo, hanno irrimediabilmente compromesso la credibilità sia del primo sia del secondo fondatore.
 
Al terzo di costoro, il Dr. Oscar MISCHIATI (1936-2004), concentrato nel recupero di un’imponente massa documentaria tratta dagli archivi del Centro-Nord della Penisola, va riconosciuta una eccezionale dedizione ‘alla causa’, nonché straordinarie virtù di erudito. Nel campo delle indagini storiche ed organologiche, oggi quasi neglette, lo studioso bolognese può ancora figurativamente assumere i tratti del convitato di pietra, o del santo che da un fondo oro estragga la spada a difesa dei risultati delle proprie ricerche.
 
Il fatto che nessuno dei tre Padri Fondatori fosse stricto sensu uno storico, ha condotto quasi in secca il vascello della disciplina, quando avrebbe potuto già navigare in alto mare. Dopo un secolo dall’inizio dell’Orgelbewegung italiana, presso gli Untermenschen della musica cembalo-organistica prosperano ancora le leggende metropolitane sopra ricordate, vengono considerate fonti primarie le scorie che il fiume della storia trascina con la melma del fondo, si chiudono gli occhi sulla Retorica quintiliana, e su tutto il ciarpame che l’avvolse in epoca barocca, si alimenta la follia numerologica bachiana sublimata a cabala, a volte trattata come merce di scambio nel suk delle cattedre universitarie, si continua a praticare la musica del Kantor come una religione, a cui si possono sacrificare gli organi storici italiani nelle ‘ottave corte’ e porvi il ‘Bordoncino’, nell’illusione di traslare le divinizzate pagine di JSB dal nostrano Sì all’oltremontano Ja.
 
 
 

- quanto sopra è stato pubblicato sul n. 42 di «Informazione Organistica», XXIX (2017)

 
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Fausto CAPORALI in risposta a Pier Paolo Donati

 

Suona quanto meno curioso il fatto che Pier Paolo Donati, indubbiamente fra i più preparati musicologi e organologi attualmente attivi in Italia, solleciti un dibattito riguardo agli esiti della Orgelbewegung rivolgendosi alla platea degli organisti; non solo i mondi della ricerca filologica rivolta all’antico e della pratica concertistica sono pressoché non comunicanti, ma direi che sostanzialmente la fase del filologismo organologico o dell’“interpretazione storicamente informata”, intesa lato sensu, abbia esaurito le sue possibilità di indirizzo, lasciando gli organisti privi di bussola da una parte e gli studiosi sempre più addottrinati, eruditi e autoreferenti dall’altra.

 

Innanzitutto occorre dire, senza pretendere di difendere nessuno, che il superamento dei risultati raggiunti dalla prima e seconda generazioni di studiosi dell’organologia sta nella naturale evoluzione delle cose, per cui il Prof. Pier Paolo Donati può usufruire di conoscenze maggiori rispetto a quelle disponibili qualche decennio fa e dunque egli può tracciare con maggiore chiarezza un panorama evolutivo nel suo decorso storico; è evidente però che il metodo e la visuale ideale con cui egli opera è la stessa di quella degli altri, ovvero egli procede desumendo da una documentazione attinente a un dato storico una prospettiva di ricostruzione/interpretazione secondo il principio del ripristino/rivisitazione di uno stato ipoteticamente originario di un oggetto/partitura, partendo da un’ermeneutica delle fonti, collazionando ciò che può essere attinente e assolutizzando il dato documentario come criterio di azione.

 

Probabilmente però, visto che si accenna a revisioni sopravvenute rispetto a errate convinzioni della generazione precedente (i soliti figli che uccidono i padri) si arriverà, io credo, a comprendere prima o poi che non esiste nessun primato di nessun genere di organari o scuole o simili, per il semplice motivo che la qualità dell’organaro/organo era una necessità derivante dalla intrinseca richiesta di un mercato che esigeva il meglio, stante uno stato dell’arte che “doveva” essere perfetto nel rapporto committenza/realizzazione: sarebbe come dire che un produttore di automobili oggi possa costruire un autovettura un po’ così e stare sul mercato; le auto devono essere tutte ottime pur avendo ognuna le sue particolarità.

 

Ogni organaro aveva la sua cifra, i suoi procedimenti, le sue “specialità” direbbero i fratelli Lingiardi, ma tutti (lasciando stare i trafficanti d’ogni epoca) dovevano essere artigiani qualitativamente ineccepibili, ciascuno con i suoi piccoli dettagli esclusivi all’interno di uno stile condiviso. Per inciso, c’è da chiedersi come mai non vengano spesso rispettate nei restauri le stratificazioni più recenti di qualità di uno strumento, che dovrebbero essere anch’esse pure sotto tutela: esiste una storia di serie A e una di serie B? “Chi” decide “cosa” tenere di queste stratificazioni? Eppure gli organi erano strumenti vivi, usati di gran lunga molto di più di ora, soggetti a usura e a continue cure, spessissimo aggiornati o gettati a seconda dei casi -segni questi di sicura vitalità-.

 

Ma occorre aggiungere un particolare, per tornare al nostro discorso: quando si avrà una mappatura dell’operato dei vari organari nelle varie epoche (dove non ci saranno né vincitori né vinti, non maestri e allievi, né geni o imitatori, ma solo ottimi artigiani in evoluzione con la propria epoca, la cui “grande musica” - intendendo con questa non la musica organistica ma la musica delle cappelle e delle corti - seguivano con attenzione per imitarla al meglio), ci si renderà conto dell’estremo regionalismo del patrimonio organario italiano, legato alla polifonia prima e al melodramma poi, ma incapace di stagliarsi al di sopra della prospettiva locale fin quasi alle soglie del XX secolo.

 

E qui veniamo al primo punto per cercare di capire la distanza fra l’organologo di oggi e il musicista: l’estrema minuzia delle conoscenze tecniche degli studiosi non arriva a sollecitare un esito musicale declinabile positivamente. Quanto più si individua un preciso dato storico tanto più emerge l’inibizione interpretativa derivante dal fatto che quel dato è indisponibile o indimostrabile in altre situazioni; l’approccio scientifico non aiuta a realizzare una interpretazione, ma, nell’incanalarla dogmaticamente, ne esautora la realizzazione.

 

La stessa precisione di informazione rivela che quel dato aspetto interpretativo è valido solo in determinati luoghi e in determinate condizioni, risultando, inevitabilmente, una semplice, eventuale possibilità locale; e ciò ammettendo che la fonte sia esauriente e chiara, cosa che, da un punto di vista generalmente filosofico, porta con sé, radicitus, i suoi dubbi. Né è possibile parlare in alcun modo di certezze acquisite: ciò che il Prof. Pier Paolo Donati lascia supporre come dati inequivocabili o come acquisizioni ormai definitive non sono che frutto di interpretazioni indirizzate da documenti, la cui vicinanza ad un ipotetico originale o la vera consistenza è impossibile da dimostrare, essendovi in ogni opera di ricostruzione o esegesi documentaria tanti aspetti che sono lasciati alla decisione/preferenza personale del curatore.

 

Di qui una pretesa scientificità che ha solo il procedimento apparente di disamina metodologicamente corretta, ma che si presta comunque e in ogni caso a confutazioni ed errori. Così, si può affermare senza timore di sbagliare che lo stato passato della ricerca organologica è stato superato e che questo attuale verrà a sua volta superato, ma che nessuno arriverà a stabilire certezze.

 

Resta poi, in tutta la sua evidenza, lo scollamento fra ricostruzione storica e aspetto musicale in senso stretto: l’ipotetica ricostruzione (ché, per noi, resterà sempre tale, fosse anche di uno strumento rifatto dallo stesso costruttore, così come una stessa musica di un compositore può suonare in modo ogni volta differente nelle mani dello stesso compositore) non conduce ad alcuna certezza riguardo all’approccio performante tanto del supporto sonoro che dell’evento musicale, restando sia l’uno che l’altro un rebus di cui ignoriamo usi, tempi, agogiche, registrazioni, modalità espressive, riferimenti di genere, ecc...

 

Nessuno studio può avvicinarsi a rivelare alcunché: per fare un esempio pratico, è come se si prendesse una partitura (o una trascrizione) della musica di un qualsiasi jazzista di oggi e si provasse a farne un’esecuzione: le possibilità di riuscita sono infinite, ma nessuna sarebbe “fedele”, neppure da parte del suo autore. Dunque vi è un problema di ricostruzione/fedeltà musicale che non ha possibilità di riuscita certa: è solo un “tendere” verso lo scopo, senza poterlo mai raggiungere.

 

Qualcuno potrà suggerire che il bello è proprio questo “tendere”, questo trovare differenti soluzioni, il fatto proprio di non avere certezze e di poter trovare interpretazioni differenti: in realtà, ciò dimostra proprio che il lavoro storico preliminare non ha poteri assertivi e dunque risulta minato alle fondamenta l’assunto; secondariamente, è proprio per questa via che il falso può procedere impunemente, nonostante le premesse.

 

Ma un ulteriore passo è stabilire il perché ci sia questa impostazione: il mantra delle ultime generazioni è “riproporre fedelmente il pensiero di un autore”; tralasciando il fatto che ciò indica un’assenza della propria personalità, per cui si assume il modo (ipotetico) di pensare e di agire di un soggetto vissuto in un’altra epoca -ciò che un qualsiasi musicista di un’epoca passata musicalmente viva non avrebbe compreso: mai avrebbe Bach fatto eseguire Palestrina come nella partitura originale, ma solo dopo averlo rivisto nella propria ottica-, si porrà l’attenzione sul fatto che la musica legata al nostro mondo organologico risulta linguisticamente avulsa dalla realtà attuale; essa è un prodotto eminentemente culturale, la cui validità è decretata da una visione storica, non da un’esigenza estetica.

 

L’organista non riuscirà mai a ricreare l’ambientazione emotiva per cui quella musica riesumata possa trovare accoglienza e soprattutto condivisione, non foss’altro perché l’esecuzione è episodica, ma soprattutto perché non ha gli accenti dell’attualità, non riesce a passare nelle vie di comunicazione attuali, e via dicendo. Non è detto che se la musica è ben fatta (per la mente) sia poi recepita dal pubblico per lo stesso motivo. Il fatto che non vi sia seguito per l’organo e per la sua musica passata si deve allo scarto linguistico che esiste fra le modalità attuali di intese estetiche e quelle che una ricostruzione storica esigerebbe per instaurarle. Lo storicismo può aiutare a capire il passato, ma non lo può ricreare e non può ricostruire sensibilità che rispondevano un tempo ad altri stimoli ed esigenze.

 

Non è possibile resettare il mondo uditivo di un ascoltatore di oggi, né con suoni, né con temperamenti che non aggiungono né tolgono nulla alla musica, né con la retorica del capolavoro e della pietra miliare (a quanto pare tutti gli strumenti e i musicisti d’antan lo sono, obbedendo alla funzione di ritornare importanza allo storico/operatore/musicista stesso), a meno di riportarlo a un mondo linguistico scomparso, dimenticando che quello dispone di alternative attuali che lo rispecchiano e lo corrispondono in modo irriflesso.

 

Tutto ciò è aggravato, a mio modo di vedere, dal fatto che l’ambito organistico italiano non offre un livello sufficientemente “universalistico” della sua musica passata e neppure mette in conto un aspetto “sovranamente musicale” dell’essere musicisti; naturalmente occorrerebbe definire cosa si intende per “universale”: ebbene, a mio modo di vedere, il fatto che la musica di Bach, Mozart e autori recenziori risulti di generale possibile comprensione estetica “universale” non deriva da una qualità intrinseca alla musica, ma dal fatto che le caratteristiche della loro musica sono vicine alla nostra epoca, in un’ottica del tutto estrinseca. Bach è vicino a noi perché le macrostrutture della sua lingua musicale risultano prensili alla nostra sensibilità (di converso, per esempio, molta musica contemporanea travalica il senso comune perché non è, nei fatti, recepibile a una sensibilità estetica qualsivoglia; oppure, altro esempio, la musica di Trovatori e Trovieri non ha afflato estetico apprezzabile oggi, restando pressoché lettera morta).

 

Quanto più si recede nel tempo, tanto più si avranno difficoltà di ricezione, la musica antica non facendo eccezione. Così, la musica organistica antica lascia l’organista privo di armi, mettendo in conto che la povertà dello strumento (al di là del fatto che siano artigianalmente belli e ben costruiti, in un’ottica di esaltazione e giustificazione storica di chi assume “quel” pensiero storico) e la particolarità delle strutture musicali coeve creano un evento il cui esito estetico è estremamente esile, tecnicamente al di fuori delle modalità di ricezione/realizzazione attuali: ciò lo storico lo può ignorare, non lo può l’esecutore e, tantomeno, l’ascoltatore.

 

Non solo lo strumento impedisce l’esibizione di virtuosismo, ma ostacola anche la creatività e la composizione, essendo state superate da tempo le ragioni estetiche di quei suoni e di quegli aspetti logistici; non si dà un’acquisizione tecnica senza un avanzamento organologico. Il trovare una diteggiatura antica costringe a pensare antico, non certo a creare il presente; l’uso di un ipotetico fraseggio antico doveva corrispondere a un modo di cantare antico, non certamente a quello di oggi.

 

Dunque, a mio parere, perseguendo quest’ottica dell’approfondimento storico (insieme ad altre ragioni), si procede verso un non-senso estetico e verso una paralisi performativa e creativa: non si crea recezione, non si crea sensibilità, non vi è indotto creativo. La modernità ha bisogno di ritrovare sé stessa dentro un evento musicale, e può ignorare, come fa in tutta tranquillità e senza ombra di crisi, di nessun genere, la ricostruzione storica; finché non troverà in essa il proprio cadenzare, il proprio modo di esprimersi, le proprie parole, il proprio sentimento, avrà una ragione sufficiente per non rivolgersi a riesumazioni d’epoca in cui i contenuti obbediscono ad altri canoni retorici.

 

Il convincimento che occorre addottrinare il pubblico da gran tempo si è rivelato inconcludente: la sostanza estetica ha bisogno di un’immersione stilistica che garantisca la ripetibilità dei dettagli e una percezione di senso, cosa che non può avvenire se non eludendo sistematicamente l’oggi. Un conto è “conoscere” ciò che è avvenuto, un altro è “emozionare” esteticamente, e non c’è da stupirsi se i nostri concerti sono vuoti e non interessano i media: evidentemente l’indagine storica non riesce a entrare nei tempi dell’oggi e a piegarne la sensibilità, e purtroppo chi ha ragione non è lo storico, è il pubblico. Davanti al quale c’è il musicista.

 

Probabilmente l’epoca del filologismo è finita, forse perché il suo scopo è stato quello di creare il museo, come si dice da tempo e tale è il concerto di musica classica/antica; l’assenza di ricezione dell’organo o, in generale, della musica classica, fa da pendant con la bassissima frequentazione dei musei per le stesse ragioni: nell’opera di ricostruzione infatti si anestetizza il presente e si addiviene a una creazione di galleria di eccellenze -tali agli occhi dello storico che valuta prescindendo dal presente- che non parlano di noi, ma solo di sé stesse.

 

L’altro principio sotteso è che”dobbiamo conoscere il passato per conoscere noi stessi”: il risultato di una conoscenza storica approfondita è solo il conoscere ciò che è stato nel passato rispetto a uomini del passato; ma quelle persone non siamo noi e la dicotomia resta tutta: è solo una raccolta di memorie e di dati, in cui si apprende che il creatore nel passato aggiungeva un proprio tassello e non rifaceva un passato più o meno glorioso; ciò che “parla di noi” è la musica “vicina” a noi, come si è detto, quella che ancora ci contiene e resiste al ritmo della ricezione odierna.

 

Resterà il dato di fatto che i nostri restauratori non avranno aggiunto nulla al passato, dal momento che la loro mente è tutta rivolta a ricostruire il pensiero di un altro; come il restauratore del quadro di Leonardo non può avere il nome pari a quello di Leonardo, così l’organaro rifacitore non avrà che il merito di aver conservato un bene che la modernità ha già archiviato.

 

Ma tutto ciò deriva da un’assenza di poetica propria, è solo un rifare -il vero organaro, non solo è chi costruisce organi a 2,3,4,5 tastiere, è anche colui che ha un “suono proprio”: ne restano in Italia?-, con l’addentellato di costringere l’organista a prendere su di sé altre epoche. Purtroppo per il pubblico questa non è una prospettiva estetica a quanto pare, e l’organista, messo a confronto con tutte le minuzie storiche che gli si pongono davanti, non sa ancora da che parte cominciare.

 

Forse l’indagine filologica in ambito italiano può già tracciare il suo bilancio, che non è a favore né della musica né dei musicisti; a mio parere, non vi sono stati eruditi che abbiano fatto scuola musicale, non potendo disporre, ora come ieri, che di ipotesi e di estetiche indotte/dedotte da documenti resi muti e freddi dal tempo.

 

La storia ulteriore sarà un precisare persone e raggi di azione, finché si troveranno dati inediti (naturalmente, sempre più locali): nulla che non sia già prevedibile nel suo trasferire dati documentari da un archivio a un libro, probabilmente senza aggiungere alcuna novità di rilievo a quanto già si conosce; purtroppo il fenomeno estetico non vi si può appoggiare finché non si impara a pensare foolish: diversa è la storia-madre, quella che suggerisce e non invade e che lasciava riplasmare come atto d’amore la musica di Palestrina dalle mani di Bach; quella imposta dagli storici e dalle sovrintendenze è matrigna.

 

Fausto Caporali

luglio 2019

 

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Risposta a Pier Paolo Donati

a cura di Francesco Finotti

 

Non invidio chi si erge a Giudice Unico (che è altro dall’Unico Supremo), così come traspare dalla lettura del testo del M° Prof. Donati quale Cronaca del convegno in memoria di Luigi Ferdinando Tagliavini (Pieve di Cadore, luglio 2018). È - quella del Giudice Unico - una posizione che mi sembra contraddica l’essenza stessa del messaggio che l’Arte e la Musica in particolare da sempre diffondono nella società: suscitare e stimolare una serie infinita di processi di interpretazione (per dirla con il filosofo Gianni Vattimo), o “profetizzare un mondo” (per dirla con Vassili Kandinskij).

Pluralità dunque di “interpretazioni” ovvero “modi d’essere” che Franz Liszt, da par suo, in una lettera scritta nel 1856 a Louis Köhler così stigmatizza:

È per me motivo di grande soddisfazione che voi abbiate trovato, caro amico, un qualche interesse per le partiture. Sia come sia, chi altri potrebbero ragionare su queste cose, esse rimangono per me come grado essenziale di sviluppo delle mie esperienze vissute interiormente [punti di partenza, quindi], esperienze che mi hanno portato alla convinzione che inventare e sentire non siano assolutamente disgrazie nell’arte.

In effetti voi rilevate correttamente che le forme (le quali da gente del tutto rispettabile sono assai spesso inframmezzate con formule o anche clausole), il movimento principale, il movimento mediano, il movimento subordinato ecc. possono divenire un’abitudine, poiché esse devono essere naturali, primitive e semplicemente comprensibili.

Senza avere la benché minima obiezione contro tale opinione, chiedo solamente il permesso di stabilire le forme conformemente ai contenuti.”

(Franz Liszt, lettere, primo volume: Da Parigi a Roma. La Mara [Marie Lipsius]. Leipzig: Breitkopf & Härtel, 1893, 225).

Il superamento dei limiti, delle categorie preconcette, delle classificazioni strumentali è dunque un imperativo al quale non ci si può sottrarre; esso è pure l’emblema della ricerca perenne della migliore comprensione della materia. È sempre Liszt che ci soccorre, al riguardo, fornendoci una chiara linea di comprensione. In una lunga lettera indirizzata a Wilhelm von Lenz, nella quale analizza dettagliatamente il libro da questi pubblicato con il titolo di Beethoven et ses trois styles (St. Pétersbourg, Bernard - 1852), Liszt rinnega tale pretesa suddivisione in tre stili, proponendo un’interpretazione totalmente diversa:

«Se mi appartenesse di categorizzare i diversi termini del pensiero del grande maestro, manifestato nelle sue Sonate, Sinfonie, Quartetti, non mi fermerei assolutamente, è vero, alla suddivisione in tre stili oggi comunemente adottata e che voi avete seguito – ma prendendo semplicemente atto delle questioni qui sollevate, peserei francamente la grande questione che è l’asse critico e dell’estetica musicale al punto in cui ci ha condotti Beethoven: vale a dire, in quanto la forma tradizionale o convenuta è necessariamente determinante per l’organizzazione del pensiero? La soluzione della questione, così come si evince dall’opera stessa di Beethoven, mi condurrebbe a suddividere quest’opera non già in tre stili o periodi – le parole stile e periodo non potendo essere qui che termini corollari, subordinati, dal vago ed equivoco significato, - ma assai logicamente in due categorie: la prima, quella nella quale la forma tradizionale e convenuta contiene e regola il pensiero del maestro; la seconda, quella in cui il pensiero estende, ferisce, ricrea e manipola al grado dei suoi bisogni e delle sue ispirazioni la forma e lo stile. Senza dubbio, così procedendo, arriveremo in linea retta a questi incessanti problemi dell’autorità e della libertà. Ma perché ci dovrebbero colpire? Nel campo delle arti liberali essi non comportano nessuno dei pericoli e dei disastri che la loro oscillazione induce nel mondo politico e sociale, poiché nel campo del Bello, solamente il genio fa autorità, e da ciò il Dualismo disparrebbe, le nozioni di autorità e di libertà riportate alla loro identità primitiva. Manzoni, definendo il genio “una impronta più forte della Divinità”, ha eloquentemente espresso questa stessa verità

 

Non posso dunque che condividere ognuna delle parole che il caro amico e collega M° Fausto Caporali ha voluto consegnarci come risposta al documento del Prof. Donati, perché noi si possa riflettere ancora a lungo sulle ragioni del nostro agire. Le faccio mie senza riserva alcuna, ribadendo che dobbiamo essere grati agli storici per il loro contributo di conoscenza irrinunciabile. Nondimeno, è giunto il momento di lasciare all’Organo “strumento musicale”, alla sua letteratura e ai loro servitori la libertà di esplorare ed evolvere in modo del tutto laico, profittando di ogni contributo che la moderna conoscenza tecnologica ed intellettuale mette a disposizione delle menti e degli animi, rifuggendo strenuamente la tentazione dell’imposizione della Musica Antica e quanto ad essa connesso come “pensiero unico” al quale uniformarsi. Dobbiamo affrancarci altresì da ogni altra forma di sudditanza nei confronti di chicchessia, così come dall’idea che occorra sempre una Orgelbewegung per poter accedere ai segreti di una qualsivoglia pagina musicale. Per assurdo, avremmo bisogno non di “una”, ma di “decine” di Orgelbewegung, poiché l’organo di Brahms non era certo quello di Bach (che nell’arco della sua vita straordinariamente intensa ne conobbe in gran numero, di ogni taglia e dai timbri più disparati). Quello di Mendelssohn (che pare abbia suonato l’organo di Eberhard Friedrich Walcker della Paulkirche a Francoforte, il primo ad essere costruito nel 1833 con somieri di tipo pneumatico, oltre agli strumenti di Mooser e Stumm, di concezione e costruzione certamente ben diversi) non era certo quello di Brahms o Liszt (che non possiamo pensare sia solo il grande strumento realizzato da Ladegast per il Duomo di Merseburg), che a loro volta non erano certo quelli di Reger o Messiaen, e così via … Si comprende dunque come un approccio di tal genere sia destinato al fallimento, poiché non tiene in considerazione il primato dell’idea sul mezzo chiamato ad esprimerla.

Le figure autorevoli che nell’Arte e in Musica si sono succedute nelle varie epoche che ci hanno preceduto, facendone la Storia, hanno plasmato i nostri pensieri, la nostra sensibilità offrendoci, ciascuna, sguardi e immagini di un mondo che non avremmo mai visto prima con le sole nostre forze e che, da quel momento, non sarà più lo stesso. Ciò è ben descritto da Borges nel suo folgorante ‘paradosso del precursore’:

[…] Nel vocabolario critico, il termine precursore è indispensabile, ma bisognerebbe purificarlo da ogni significato di polemica o di rivalità. Il fatto si è che ogni scrittore crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato, come modificherà il futuro. In questa correlazione non ha alcuna importanza l’identità o la pluralità degli uomini.”

(Jorge Luis Borges, Kafka e i suoi precursori, Altre Inquisizioni, Universale Economica Feltrinelli, 1963).

L’obiettivo è - ancora e sempre - quello di portare il nostro strumento a condividere l’identico rango e godere della identica attenzione che gli individui (esseri umani) concedono a tutti gli altri strumenti del “far musica”, per far sì che essi siano concretamente riuniti con identica dignità sotto l’ala protettrice della Musica, regina fra le arti e somma dispensatrice di bellezza e amore.

 

Francesco Finotti

Luglio 2019

 

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Memoriale di Giuseppe PIAZZA
 

Pier Paolo Donati era amico di Luigi Ferdinando Tagliavini, era bene informato; quindi è in grado di scrivere con cognizione di causa sul maestro di Bologna. Conoscevo gran parte delle notizie apparse nell’articolo di Donati, alcune no.

Avevo conosciuto il m.° Luigi Ferdinando Tagliavini nel lontano passato in occasione di qualche suo concerto. Poi ci siamo incontrati e abbiamo dialogato nel 1970, al Convegno organistico di Ravenna.

Il desiderio di approfondire la conoscenza della musica antica mi aveva spinto alcune volte a Pistoia per frequentare le lezioni di Luigi Ferdinando Tagliavini e di Gustav Leonhardt , nell’ambito dei corsi di perfezionamento, organizzati dal bravo e infaticabile Umberto Pineschi.

Proprio a Pistoia ebbi l’occasione di conoscere P.P. Donati, con cui si era stabilito un rapporto di cordialità e amicizia: eravamo entrambi storici dell’arte. Egli mi accompagnò ad esaminare e suonare nella zona organi antichi, almeno due restaurati nel suo laboratorio fiorentino presso il Palazzo Pitti. Visitai e suonai altri organi, da lui restaurati, in varie località della Toscana (in particolare a Firenze e ad Arezzo, dove si era tenuto un importante convegno di arte organaria). Apprezzai la precisione nell’uso dei materiali, il modo corretto, storico, scientifico di procedere al restauro degli organi antichi. Non sempre fui convinto e conquistato dal suono, dall’intonazione, ma si trattava dei primi restauri, pur eseguiti con grande cura, perizia e rigore.

Ero giovane studente universitario, stavo provando a Trento l’organo di Santa Maria Maggiore, quando conobbi il padre della scienza organologica italiana, Renato Lunelli. Mi condusse tra le canne per mostrarmi le caratteristiche del famoso organo Serassi, danneggiato da una bomba e ricostruito da Mascioni; quindi fui invitato nella sua abitazione dove, fra montagne di libri e documenti, troneggiava un pianoforte a coda con pedaliera. Fui colpito dalle sue copiose ricerche in ambito organario e dall’immensa conoscenza : mi aveva chiesto informazioni su due organi della mia provincia. Ma seppi dire poco di più di quanto egli già conoscesse. Mi regalò alcune sue pubblicazioni. A distanza di tanto tempo ricordo con ammirazione l’immensa conoscenza storica, tecnica e musicale (Lunelli era organista), ma anche la semplicità e l’umiltà dello studioso, quale si addice alle persone intelligenti. Dopo la sua morte, avvenuta nel gennaio del 1967, il figlio Clemente venne a trovarmi, forse per conoscermi , ma soprattutto per vedere il doppio organo Bonatti, dal 1874 nella parrocchiale di S. Ulderico di Tretto, costruito nel 1738 per il duomo di Schio. Mi regalò una piccola raccolta postuma degli scritti del padre.

Ma l’opera organologica di Lunelli continuò dopo la sua scomparsa. Nel 1960 egli aveva fondato con il m.° Tagliavini la rivista “L’ORGANO” della Pàtron, la prima rivista di organaria di tipo scientifico. E’ rimasta in vita fino al 2013. Appare evidente e prepotente, ai fini del movimento organaro e organistico, la figura di Luigi Ferdinando Tagliavini.

Nel 2002 nasce la nuova rivista scientifica a Pistoia di P. P. Donati: “informazione organistica”.

Avevo incontrato il maestro Tagliavini in varie circostanze: era stato sempre cordiale con il sottoscritto, anche quando le nostre opinioni erano un po’ diverse. Lo invitai tre volte a Schio al festival organistico, quindi lo chiamai per un concerto sul Serassi di Valli e sul De Lorenzi di Tonezza. C’era fra noi stima e apprezzamento, si parlava volentieri di musica, cultura e di ogni argomento, come avviene tra vecchi amici, ma ci siamo sempre dati del lei.

Ricordo l’entusiasmo con cui egli mi mostrò a Candide il “suo” doppio Callido, dopo una manutenzione straordinaria di Mario Piccinelli, figlio di Alfredo che avevo accompagnato nel Comelico per l’inaugurazione del restauro. Ne andava fiero e mi rispondeva con il sorriso alle mie osservazioni, che riteneva comprensibili; ma quell’organo era speciale, non c’era il riscaldamento in chiesa che modificasse le qualità dell’organo. Mi mostrò la segreta del somiere dicendo: la pelle a lei sembra nuova ed invece è originale. Le canne di facciata non sono state toccate, solo pulite con un panno di lana e sembrano nuove.

Il concerto inaugurale fu tenuto dal suo amico Gustav Leonhardt che ci regalò un’esecuzione impeccabile.

Negli ultimi incontri il Tagliavini si lamentava di essere rimasto solo. “Da quando sono andato in pensione – mi diceva- sono spariti molti amici e quasi tutti gli allievi che prima mi osannavano. Ciò mi rattrista e non mi è sempre chiaro il perché: noi invece, anche se ci vediamo di rado, abbiamo conservato un’amicizia cordiale, forse frutto della stima reciproca”. Osservai che è una condizione normale per chiunque vada in pensione. Anch’io sono considerato un estraneo quando entro al liceo dove ho insegnato per quarant’anni.

In tempi recenti lo incontrai due volte a Bologna, dove accompagnò me ed altri amici a visitare il “suo” interessante museo degli strumenti musicali, di cui andava fiero.

Qualche telefonata: l’ultima, poco prima di passare nel mondo dei più. Mi rispose dapprima la badante e quindi il maestro, che parlava con qualche difficoltà; si scusò del suo stato. Mi assicurò che ci saremmo sentiti quando avesse ripreso le forze.

Ho sempre stimato l’organista M° Tagliavini, soprattutto nell’esecuzione della musica antica, ma non solo.

Ero presente a Venezia in occasione del concerto sui due organi della basilica dei Frari (Piaggia e Callido), nel 1982 a Bologna (inaugurazione dei due organi storici di san Petronio) e nel 1987 al Conservatorio "B. Marcello" di Venezia (inaugurazione dell’organo doppio di Franz Zanin). Suonavano assieme due grandi, G. Leonhardt e L.F. Tagliavini. Era un confronto fra due famosi musicisti: un tocco raffinato, quasi cembalistico, musicale, quello di Leonhardt, ma il vero organista era Tagliavini: il tocco delle tastiere, il controllo dei ventilabri, l’arte di far parlare le canne era una sua dote inconfondibile.

Ho imparato molto dal maestro Tagliavini, sul piano musicale, organologico e culturale.

Ho conosciuto anche Oscar Mischiati. Sembrava un computer ambulante: sapeva leggere le canne, conosceva le città dagli organi, te li citava , ti diceva il nome del costruttore, la data, le tastiere, ricordava perfino i registri e la loro ubicazione nella cassa. Non sempre eravamo in sintonia: qualche volta ci siamo scontrati, forse perché lui era più attento allo strumento che alla musica. Infatti non sapeva suonare gli organi, li esaminava e ne curava il restauro, muovendosi con maestria e competenza tra le canne. Tuttavia l’organo non è un quadro, non un’opera d’arte da ammirare: è una macchina per fare musica, è un “òrganon”, uno strumento.

Dissentivo da Mischiati quando voleva ricostruire un nuovo Serassi o altro organo storico attorno ad una manciata di canne originali. E’ un falso – gli dicevo- non ha senso. Se l’organo è integro, va conservato a tutti i costi. Ma non si può ricostruire una copia di un organo antico attorno a quattro canne pur originali.

E’ preferibile costruire un organo nuovo; anche l’organaro di oggi può costruire bene come gli antichi. Inoltre Mischiati non era mai sfiorato dai dubbi che in me invece sono cresciuti con l’età: era certo, sempre e ovunque. Ricordo una discussione sul Serassi di Valli: io avevo tre proposte di spiegazione, ma non ero certo di nessuna; lui no, era sicuro della sua. Gli chiesi se avesse parlato con Serassi per avere queste certezze, che si basavano solo su opinioni.

Non so se tale rigidezza sia utile all’organo, al restauro, alla storia.

Tuttavia mi chiedo che cosa resti di questo movimento di arte organaria.

Sicuramente la Soprintendenza ai beni culturali, che nel passato ignorava l’organo e pensava solo a conservare l’esterno della cassa se era artistica, ora è interessata anche alla macchina organo; e ciò è merito del movimento di Renato Lunelli e Luigi Ferdinando Tagliavini.

Tuttavia l’opera di restauro appare abbastanza difficile. Le chiese sono sempre meno frequentate e l’organo è l’ultimo pensiero della parrocchia.

Pur vecchio, continuo a tenere come punto di riferimento la figura di Luigi Ferdinando Tagliavini, musicista completo, colto, sensibile, vero e preciso conoscitore dell’arte organaria.

A testimonianza della sua generosità e dell’ eredità culturale, basterebbe ricordare il pregevole museo degli strumenti musicali a Bologna, nella splendida cornice di san Colombano, che raccoglie tutti i suoi strumenti, donati alla città di Bologna, e altri acquistati in tutta Europa sotto la sua illuminata regìa. Tale museo rappresenta un unicum della cultura italiana ed è un merito esclusivo del maestro Tagliavini.

 

Giuseppe Piazza (Schio, VI)

 

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Il M.° Stefano Maria Torchio Mag. Art., Direttore d’Orchestra, Compositore e Violinista, a commento dell’articolo pubblicato dal Prof. Pier Paolo Donati

 

Puntualizzazioni

 

Come Direttore d’Orchestra che ha compiuto la sua formazione e la sua attività musicale tra l’Italia e Vienna,non posso non esprimere il mio interesse ed apprezzamento per il fatto che si portino all’attenzione di interessati, studiosi, appassionati ed addetti ai lavori le tematiche affrontate nell’articolo e negli interventi ad esso seguiti sulla pagina di questo forum. Esso è certamente di grande importanza per il panorama culturale,non solo nazionale. In particolare,i contributi dei Maestri Caporali e Finotti hanno suscitato in me il desiderio di enucleare alcune puntualizzazioni dagli argomenti che essi portano alla discussione. Entrambi affrontano le questioni esaustivamente e con la cognizione di causa propria di chi può vantare un’importante esperienza nell’attività concreta del fare Musica. Sperando di non apparire arrogante, ritengo che il fatto che la mia sia, in un certo senso, una voce un po’ “fuori dal coro” (in quanto quella di un musicista attivo principalmente come Direttore d’Orchestra e di Coro), possa ulteriormente portare interesse a quanto mi accingo ad esporre e contribuire alla vivacità della discussione e mi adopererò per questo.

 

Il tema, probabilmente dirimente, dell’atteggiamento interpretativo storicamente informato e “fedele” s’intreccia con quello, a mio avviso ben più urgente, del futuro, della collocazione socio - culturale della nostra Arte e delle finalità della stessa. Appare evidente che il suono degli strumenti antichi e di certe tecniche di esecuzione antiche eserciti un fascino molto seducente su ampie fasce di ascoltatori e di musicisti. Tuttavia, come si evince chiaramente da quanto esprimono i due Maestri, ci sono prospettive, a partire dalle quali si può riflettere sull’interpretazione musicale, che appaiono più consistenti e meno dottrinali. La questione dell’interpretazione di un brano musicale costituisce da sempre un terreno di dibattito acceso tra gli studiosi di più settori, essendo stata trattata, di volta in volta, dal punto di vista della Filosofia, del linguaggio e della comunicazione, dell’Arte, ecc. Tra i grandi Direttori del passato il pensiero va subito a grandi Maestri quali W. Furtwängler e, in particolare, S. Celibidache (senza dimenticare altri rappresentanti della scuola tedesca più recente, come ad esempio G. Wand) che andava formulando un impianto teorico sempre più raffinato,a mano a mano che approfondiva la riflessione sull’esperienza umana del musizieren. Tutto questo lavoro purtroppo è rimasto incompiuto ma rappresenta ugualmente una delle cifre dell’importanza e del fascino di questo grande Direttore, non di rado precursore di orizzonti interpretativi successivi.

Presso questi grandi Maestri, presso i grandi Compositori citati dal M.° Finotti, così come presso ogni musicista capace che abbia sviluppato una personalità artistica all’interno della quale abbia portato a maturazione il brano che voglia eseguire, l’atto interpretativo è la combinazione finale di un’infinità di riflessioni, risvegliate alla mente dell’esecutore (colto e preparato) dai più disparati ambiti di formazione e di studio, nonchè dalle più disparate esperienze umane, non ultima quella della geniale intuizione.

 

La pretesa di ridurre tutto ciò ai soli dettami desunti in maniera più o meno fondata da una documentazione storica che, per forza di cose, ci giunge purtroppo in maniera più o meno completa - attribuendo di volta in volta a “esperti” di varia estrazione e caratura, spesso neppure musicisti concretamente impegnati in un’attività esecutiva professionale, un supremo giudizio di “liceità” delle scelte interpretative dell’esecutore - risulta, pertanto, come un pretestuoso dogmatismo, il quale, senza che se ne comprenda esattamente la ragione, sembra voler privare il gesto artistico di uno dei suoi aspetti più autentici ed intriganti, contribuendo così alla profonda crisi d’interesse che sta vivendo la Musica Colta presso la società attuale. Al contrario, il musicista di talento mette in atto tutte le sue potenzialità con il solo scopo della restituzione, la più efficace possibile, del contenuto compositivo ed espressivo della partitura. Dunque, una tecnica esecutiva può essere praticata dal suonatore in virtù di questa sua efficacia anzichè in virtù di una più o meno verificabile “fedeltà” storica. Nella sostanza acustica il risultato non cambia ma questa prospettiva è molto più ricca ed interessante sul piano estetico, intellettuale e culturale e quella che permette l’espressione viva e completa dell’Artista autentico. A questo scopo occorre, tra le svariate condizioni necessarie, che gli attrezzi del mestiere, ossia gli strumenti musicali, siano i più adeguati ma su questo aspetto tornerò più avanti. Qui, per chiarezza mi sembra utile ricordare come esempio un’esperienza personale: a conclusione dei miei studi in Direzione d’Orchestra presso la Universität für Musik und darstellende Kunst di Vienna presentai una tesi, rivolta innanzi tutto agli Organisti, dove analizzavo alcuni aspetti di convergenza o divergenza tra l’Organo e l’Orchestra (o l’ensemble strumentale) a partire dal Medioevo, passando per J. S. Bach, fino a giungere ai giorni nostri. Posso subito tranquillizzare i lettori sul fatto che della questione, talora fuorviante, dell’Organo cosiddetto “eclettico” in quel lavoro non c’è traccia. La mia trattazione si è svolta dalla prospettiva della Strumentazione e dell’Orchestrazione (discipline teoriche molto importanti nell’arte della Direzione d’Orchestra), l’applicazione dei cui concetti mi è parso di poter ravvisare in relazione ad alcuni importanti lavori del repertorio organistico ed in relazione all’arte della registrazione ed all’Arte Organaria. Un simile ragionamento non sarebbe mai stato possibile, se io mi fossi vincolato esclusivamente alla pretesa della fedeltà storica. Eppure rimango convinto che quel lavoro possa rappresentare uno stimolo incoraggiante sia per l’interprete del repertorio organistico, sia per quello quanto meno di quel repertorio orchestrale che risulti in qualche maniera collegato alla musica o alla pratica esecutiva organistica (si pensi, ad esempio, alle grandi sinfonie di A. Bruckner, alla musica di R. Wagner, alla celeberrima “Sexquialtera II”nel Boléro di M. Ravel e al sommo J. S. Bach, del quale appare difficile poter pensare che dimenticasse lo sconfinato universo timbrico che ci mostra nel corpus delle 200 Cantate, una volta che si fosse seduto ad un Organo magari costruito secondo le sue indicazioni).

 

Tutto ciò si lega, a mio modesto parere, con una questione ben più grave che riguarda la formazione organistica in Italia. Ritorno ancora, per semplicità, su un’esperienza personale: all’epoca dei miei studi in Violino in Conservatorio sentivo talvolta insegnanti ed allievi di Organo discutere di registrazione, dinamica, agogica e, più in generale, di interpretazione e di scelta del repertorio. Non era infrequente udire affermazioni come «questo brano lo eseguo con questi registri, perchè mi sembrano appropriati liturgicamente» oppure «questo corale lo eseguo con il Tutti, tanto alla fine della messa posso suonare forte» - e si trattava di una tipica elaborazione per voce solista con accompagnamento e basso al pedale - o ancora «alla fine della messa ho suonato la Passacaglia di Bach, perchè tanto è adatta ai funerali». Dunque, i criteri che guidavano l’interpretazione e l’esecuzione, perfino di pagine di assoluta importanza del repertorio organistico, erano un supposto carattere “liturgico” e, nel caso del capolavoro bachiano, addirittura un supposto carattere “funebre”, non meglio definiti.

Personalmente, ritengo un simile approccio assolutamente lontano da quello efficace per un’interpretazione di qualità delle sfortunate pagine del repertorio organistico finite, in questo caso, nelle mani di esecutori quanto meno superficiali. Ancor più grave è il fatto che simili ragionamenti bislacchi trovino spazio nel luogo deputato alla trasmissione di un sapere tecnico, “laico”, come ricordava il M.° Caporali, totalmente indipendente da queste forme di eteronomia per nulla attinentee senza fondamenti nell’impianto teorico/pratico e nella letteratura della materia di cui si tratta.Mai avremmo pronunciato simili affermazioni nelle classi di Violino!

Soltanto l’approccio che riconosca il primato assoluto della Regola d’Arte (differente per ogni Arte e plasmata da ogni Artista, della quale anche la Musica dispone) quale unico indirizzo che assicura l’autentica indipendenza dell’Arte che regola, permette la piena realizzazione dell’Opera d’Arte e della pratica più autentica, vera, viva ed onesta dell’Arte stessa.

Non mi metterò certo a trattare qui il concetto del «carattere liturgico» applicato alla Musica o all’Arte in generale. Sappiamo tutti come si tratti di un tema tanto ampio quanto inconsistente che esula dalle questioni che mi sono risolto ad affrontare in questo mio contributo. Qui mi limito solamente a segnalare come non mi sia mai capitato di incontrare alcun membro del clero in grado di definirlo in maniera soddisfacente e logicamente comprensibile.

Dunque, l’Organo soffre la sua disparità e costrizione nella sua nicchia, anche all’interno del mondo della Musica Colta e dei suoi strumenti, anche in virtù di una considerazione di esso contaminata da simili idee del tutto estranee e semmai contrarie ad un sapere completo ed approfondito e ad una pratica efficace dello strumento. Solamente quando riusciremo a liberarli dall’oppressione di simili spauracchi, lo strumento e la sua musica recupereranno la dignità che spetta loro quale espressione artistica, al pari di tutti gli altri strumenti musicali e dei loro repertori, contribuendo così a farli uscire dall’isolamento e dall’immeritata nicchia di scarsa considerazione dei quali, purtroppo, godono oggi.

 

Il terzo punto che mi preme evidenziare è quello dellocalismo/particolarismo dell’Arte Organaria nostrana (ma non solo), ancora una volta segnalato dal M.° Caporali. Le sue osservazioni risultano quanto mai appropriate, dato che l’impostazione tradizionale sulle categorie delle cosiddette scuole nazionali, approssimando eccessivamente la complessità del panorama delle realizzazioni dell’Arte Organaria, ha finito per generare ancora una volta rigidità dottrinali che hanno offuscato la realtà del fenomeno e impedito alla pratica dell’esecuzione organistica e della costruzione degli strumenti sviluppi altrimenti molto interessanti e che, di nuovo, si riverberano nella formazione dei giovani Organisti. Ancora la questione s’intreccia con l’atteggiamento storicistico che si manifesta, ad esempio, nell’ambito di interminabili ed inconcludenti discussioni riguardanti questioni come la liceità dell’impiego di registri d’ancia nella musica italiana antica, anche quando questa venga eseguita, per la situazione contingente, su di uno strumento moderno. Tutto ciò nonostante siano note da decenni la completezza delle composizioni foniche degli strumenti dell’Italia centro - meridionale, le sperimentazioni toscane e meridionali (con i loro Cornetti cinesi e strumenti a 5 - 7 tastiere con decine di Flauti da 8’) e le contaminazioni stilistiche presenti, anche in passato, in tutte le tradizioni organarie europee. La conclusione non può che essere quella del M.° Finotti, per cui occorrerebbe la filologia di ogni strumento e di ogni autore, visto che quasi ogni Organo porta le tracce di una storia personale fatta di restauri, rifacimenti, adattamenti timbrici o danneggiamenti. Sono davvero molto rari i casi di Organi antichi rimastitotalmente intonsi dall’epoca della loro costruzione ad oggi e che veramente possano testimoniare l’autentico pensiero del proprio autore. Una volta che si sia superata una forma suggestiva di nostalgia - frutto, talvolta, di una pur apprezzabile dose di buoni sentimenti ma non di effettiva competenza artistica -, ci si renderà conto che questa condizione non è necessariamente sempre la migliore dal punto di vista dell’Arte.

Lo stesso ragionamento si può svolgere sugli autori e sulle loro opere, se si ammette che esse possano essere state eseguite dagli stessi compositori anche più di una volta, magari su strumenti diversi, come sembrerebbero mostrare versioni differenti degli stessi lavori ad opera, ad esempio, di autori quali D. Buxtehude e J. S. Bach le quali, com’è noto, sono diretta conseguenza delle condizioni contingenti in cui l’opera si trovava ad essere eseguita. Dunque, quale filologia si dovrà seguire? Di quale esecuzione? Qual è, a questo punto, il “vero” pensiero dell’autore? E perchè non entrambi? Anche qui ci sono ampi spazi per la speculazione e spesso diversi tasselli del puzzle storico rimangono dispersi tra le pieghe del tempo.

Detto questo, ritengo che chiunque sia dotato di un’adeguata preparazione (comprovata dai titoli) e sensibilità artistica riconosca il valore del patrimonio organario storico di pregio, da preservarsi, ma per le nuove realizzazioni si tratta di un altro percorso.

A questi soggetti bisognerebbe rivolgersi in queste situazioni e anche questo, purtroppo, accade molto di rado, soprattutto tra le chiese. Occorre, innanzi tutto, individuare le finalità musicali e d’impiego del nuovo strumento e la veste acustica più adeguata a questo scopo con la lucidità del tecnico esperto, ancora una volta in coerenza con la sola indipendenza e Regola d’Arte, senza vincolarsi ad un qualche precedente ritenuto pretestuosamente unica patente di liceità per la realizzazione stessa. Soltanto questa impostazione, per quanto si diceva prima, può assicurare un futuro all’esecuzione ed alla creazione musicali, trovandosi peraltro in linea, a proposito di precedenti autorevoli, con quanto è sempre accaduto lungo tutta la Storia della Musica: cioè che lo sviluppo delle tecniche e dei linguaggi della Composizione ha immancabilmente portato con sè l’adeguamento dei mezzi per esprimerli, cioè degli strumenti musicali.

A questo proposito, gli strumenti progettati dal M.° Finotti, fine virtuoso dell’Organo ed attento esploratore delle problematiche concernenti la sua costruzione, offrono le più interessanti prospettive, guadagnandosi la propria ben meritata indipendenza dalle realizzazioni del passato (considerate giustamente quali tappe importanti di un percorso di evoluzione ma non feticci), senza tuttavia disconoscerne il valore (che, anzi, talvolta viene persino riassorbito e rielaborato in certi strumenti), e proponendo in ogni caso e sotto tutti i punti di vista una realizzazione artistica di indiscutibile qualità sonora ed artigianale e versatilità.

 

 

 

 

 

 

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Sezione: 
Autore: 
Pier Paolo Donati
Qualifica autore: 
Direttore del periodico «Informazione Organistica»